La vita scorre a Courmayeur in un clima prettamente alpinistico: almeno a casa di Walter. È un febbrile discorrere di conquiste alpinistiche e intanto si attende il ritorno del bel tempo per misurarci nuovamente con la montagna.
Ora vogliamo avventurarci in un’altra impresa: una impresa molto ardua, più ardua ancora della conquista del Pilastro Rosso. A quanto pare anche in noi la sazietà non arriva mai. Si continua, sempre cercando il sempre più complicato: non so cos’è, so solo che si aspetta per tanto tempo il momento per vincere una parete, poi, quando questa è conquistata, si pensa subito a un’altra, magari più difficile come nel nostro caso. L’intenzione è di dare l’assalto al Pilone Centrale che porta in vetta al Monte Bianco di Courmayeur lungo la bastionata Sud. Ma, dato il complicato approccio e le severe difficoltà che si trovano lungo le sue pareti, occorre, a nostro avviso, essere in tre o quattro, per avere più materiale a disposizione.
Già qualche anno prima io e Walter eravamo d’accordo d’iniziare l’impresa in compagnia del compianto e formidabile alpinista francese Jean Couzy, ma, data la sua mancanza, pensiamo di invitare Carlo Mauri. Accetta, ma all’ultimo momento, senza una chiara spiegazione, ci lascia nuovamente soli.
Giornate brutte si susseguono ininterrottamente e noi aspettiamo nella casa di Courmayeur con un programma ben dettagliato.
La snervante attesa è resa ancor più nervosa dalle ripetute apparizioni di altri alpinisti nella zona e tutti col medesimo programma: il Pilone Centrale.
Possibile che quest’anno tutti pensino a questo problema? Prima è la volta di due alpinisti: si recano sul Picco Eccles e lasciano, nei pressi della cima, chiodi, moschettoni e perfino della fontina. Presto però veniamo a sapere che hanno rinunciato. Qualche giorno dopo è il turno di altri due; e si tratta di gente in gamba, dato che li conosco personalmente; ma Walter, esperto del posto, pensa che i due si smarriranno lungo la complicata marcia di avvicinamento. Infine, sempre nel periodo piovigginoso, ecco apparire altri quattro alpinisti lombardi. Arrivano soltanto a rendere più nervosa l’attesa del bel tempo; ma finalmente ecco il sole e possiamo muoverci per “difendere” il nostro programma da altre ambizioni.
Presto dobbiamo convincerci che ci sbagliamo: siamo solo noi due che corriamo all’attacco; e il raggiungerlo è una vera impresa. E ci convinciamo anche che non ne uscirà una corsa, come sta succedendo proprio in questi giorni per la conquista della via più diretta lungo la parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo.
Lasciamo Courmayeur alle 4 del pomeriggio: col grosso fardello sulle spalle saliamo al rifugio Gamba senza forzare l’andatura; non vogliamo stancarci subito in partenza; le energie abbisognano più in alto, sul posto; perciò occorre prendersela con calma. Sostiamo per una buona cena al rifugio Gamba; poi alle nove lo lasciamo diretti al Colle dell’Innominata. Le buone condizioni di neve ci fanno raggiungere il colle in anticipo sull’orario previsto da Walter.
Al Colle dell’Innominata, al cospetto della parete Ovest dell’Aiguille Noire de Fresney, bivacchiamo. Dobbiamo attendere le tre per scendere sul ghiacciaio del Fresney, perciò cerchiamo di chiudere occhio dentro ai nostri sacchi. Il terrazzo duro, o la posizione poco comoda, non ci fanno dormire. Discorriamo e parliamo delle Noire. Anche qui sono passati dieci anni da quando per la prima volta siamo scesi su questo tormentato ghiacciaio per affrontare la vertiginosa parete Ovest. Dieci anni fa era una severa impresa; eravamo la terza cordata a salirla: il formidabile Jean Couzy era perfino tornato indietro.
Ora, pur essendo ancora una grande parete, le sue difficoltà sono “domate” per la chiodatura che la percorre ed anche perché la tecnica alpinistica è molto più evoluta di dieci anni fa.
Alle tre abbandoniamo il nostro terrazzo per scendere sul ghiacciaio. Dobbiamo risalirlo in tutta la sua lunghezza: dobbiamo pertanto aggirarci fra i molti seracchi; saltare parecchi crepacci; ma il maggior ostacolo è dato da una crepaccia che attraversa tutto il ghiacciaio.
È molto larga, ma troviamo il passaggio nel centro su un enorme scivolo che scarica continuamente: essendo nelle ore più fredde della notte possiamo stare per il momento tranquilli. Alle sette siamo alla base dei Rochers Gruber, posti proprio sotto la Ovest dell’Aiguille Bianche. Rimontiamo velocemente queste roccette che presentano difficoltà di misto, dirigendoci verso il Colle di Peuterey. Alle 1O arriviamo: siamo a quota 4 mila. È davvero una ascensione a parte, raggiungere il punto in cui ci troviamo. Non possiamo dirigerci subito verso il Pilone. Il piccolo ghiacciaio sottostante è diventato infido per la neve marcia, e proseguire è un severo spreco di energie; inoltre, ora potrebbe cadere qualche scarica di ghiaccio dal fianco della montagna.
Decidiamo di aspettare che arrivi l’ombra, e arriverà nel pomeriggio: così il freddo potrà stringere nella sua morsa tutto quello che può cadere da un momento all’altro. Su uno spuntoncino di granito, posto al Col di Peuterey, piantiamo dei chiodi e ci leghiamo concedendoci una sosta, esposti ai fortissimi raggi del sole.
Osserviamo la via di discesa dell’Aiguille Bianche che porta al Col di Peuterey: ci sono due alpinisti che stanno scendendo molto veloci; forse sono due “cannoni”. Arrivano nei nostri paraggi. Forse aspetteranno anch’essi sul sasso la sera, per proseguire lungo la cresta che porta sul Bianco diventata in questo momento molto pericolosa.
Infatti i due alpinisti si dirigono verso di noi, e presto ci raggiungono sulla roccia. A nostro parere i due sembrano fin troppo decisi, forse anche un po’ imprudenti: senza alcuna assicurazione passano la crepaccia che divide il sasso dal ghiacciaio, saltellando con disinvoltura sul ponte di neve diventata nel frattempo molto molle. Raggiunto il sasso, ci salutano.
Sono due tedeschi. Si fermano un solo istante, poi si accingono a partire nuovamente. Io e Walter ci guardiamo un po’ sorpresi: avventurarsi a quest’ora sulla cresta del Peuterey è una vera pazzia.
Poco dopo, sempre più decisi, i due si precipitano ancora con più grande disinvoltura sul ponte di neve e proseguono per il loro itinerario. A dire il vero durante questa operazione senza alcuna assicurazione, uno di loro cade proprio sul ponte di neve rovinandolo in parte, ma senza superarlo. Guardiamo sempre più stupiti questa manovra pensando alla buona dose di fortuna che li ha assistiti.
Ripensando bene alla cosa c’è da farsi venire la pelle d’oca. Mentre osserviamo la penosa marcia dei due tedeschi nella neve diventata molle, imbastiamo una breve conversazione raffrontando la nostra maniera di agire nei confronti della montagna con quella dei due che stanno proseguendo con disinvoltura nel loro intento.
Noi abbiamo attraversato questa crepaccia passando sul ponte letteralmente strisciando, con una corda di assicurazione: i due tedeschi sono passati come se camminassero su una strada asfaltata.
Noi stiamo ad attendere che la neve si indurisca per portarci sotto al Pilone; loro invece proseguono imperterriti seguendo tra l’altro un itinerario sbagliato per portarsi sulla cresta. Forse viene voglia di dire che noi siamo due fifoni: sarà, ma è questione di coscienza; e conoscendo attraverso personali disavventure i rischi e i pericoli che sempre stanno in agguato, è logico ed anche giusto il nostro andar cauti.
Rimaniamo fino alle quattro del pomeriggio esposti ai brucianti raggi del sole, seduti sul sasso: è fastidioso questo calore e gli indumenti non sono sufficienti a ripararci dal riverbero della neve che comincia a gonfiare le nostre facce. Come sopraggiunge la prima ombra, ci avventuriamo a nostra volta sul ghiacciaio. La neve è diventata abbastanza dura e proseguire è meno rischioso che poco tempo prima.
Affrontiamo il pendio ghiacciato; passiamo una piccola crepaccia molto complicata, poi quella terminale, più larga. Walter si attacca finalmente alle rocce del Pilone: poco dopo sono al suo fianco. In questo punto teniamo a portata di mano dei chiodi e cerchiamo di alzarci il più possibile prima che tramonti il sole. Per essere leggeri durante questa ascensione di sesto grado posta sopra ai 4.000 metri, abbiamo portato pochi viveri, e anche pochi attrezzi con solo una quarantina di chiodi, e perciò devono essere ricuperati tutti perché in alto se ne farà largo uso.
A duecento metri dal ghiacciaio cerchiamo di sistemarci per il bivacco. Tutti i terrazzi sono coperti da un grosso strato di ghiaccio, perciò occorre lavorare di piccozza. Dopo una buona mezz’ora, il terrazzo è pulito; ma un leggero strato di ghiaccio rimane ancora appiccicato tenendoci al fresco per tutta la durata della notte.
Mangiamo un po’ di carne e beviamo un sorso di brodo, poi la lunga attesa. Alla giornata bruciante, fa seguito una notte freddissima: una notte che ci tiene svegli facendoci battere i denti. Credo che qualche lineetta di febbre sia venuta ad aggravare per me le lunghe ore di attesa. Quando esco, al mattino, mi sento un po’ intontito. Riprendiamo subito ad andare avanti: affronto un diedro, ma mi sembra di sentire un leggero malessere. Passa davanti Walter e forza il passaggio. La roccia è diventata infida; le fessure, essendo otturate da lunghe colate di ghiaccio, non tengono i chiodi.
È pericoloso continuare, almeno in questo momento. Ci riuniamo sopra un delicato passaggio e, dopo aver riflettuto a lungo, decidiamo di rinunciare momentaneamente all’impresa. Dobbiamo tornare: dobbiamo rifare la strada percorsa nel salire. Guardando il ghiacciaio del Fresney, che vediamo enormemente in basso, ed osservando i Rochers Gruber, notiamo che sono martellati da forti scariche di pietra. Per il momento contiamo di raggiungere il Col di Peuterey, poi si deciderà cosa fare.
Delle calate a corda doppia ci portano alla base del Pilone, ma sul ghiacciaio ora non possiamo avventurarci: bisogna aspettare che arrivi l’ombra. Aspettiamo scaldando del brodo e consumando gli ultimi viveri. Col sopraggiungere dell’ombra ridiscendiamo il ghiacciaio e raggiungiamo ancora il sasso posto al Colle. Sono quasi le otto di sera: nessuno di noi due si sente il coraggio di scendere lungo la strada di salita.
Dal Pilone abbiamo notato il pericolo che staziona sulla testa di chi vuol avventurarsi sui Rochers Gruber. Facciamo appello alle nostre forze e ci sentiamo di proseguire verso la vetta del Monte Bianco lungo la ghiacciata cresta del Peuterey. Avvolte le corde in spalla, ad un metro di distanza l’uno dall’altro, tenendo un breve tratto di corda teso fra di noi, iniziamo la lunga scalata alle roccette che ostacolano il primo salto della cresta.
Proseguiamo velocissimi, come se fossimo appena usciti dal rifugio. In meno di un’ora le roccette sono superate. Il sole già da un po’ è tramontato, ma è spuntata la luna e il suo chiarore si fa sempre più vivo. Avanziamo lungo la cresta senza nemmeno fare dei gradini: ci sentiamo sicuri l’uno dell’altro. A mio parere la vetta è vicina, ma Walter, che conosce bene questo luogo, dice che essa è ancora lontana. Ad un certo punto Walter si ferma. Le calze inzuppate dalla neve sono diventate involucri di ghiaccio. Gli scarponi sono di pietra. Mentre cambia le calze io gli ammorbidisco le calzature dentro al mio giubbotto. Poi via ancora fra il bianco luccicare della cresta sotto i raggi lunari.
È quasi mezzanotte e mi sembra che la cima sia pochi metri sopra di noi. Così è: un tiro di corda e, allungando le mani sopra una dura cornice di ghiaccio, sbuchiamo in vetta al Monte Bianco. È un sogno e una realtà. Una cosa indescrivibile. Finalmente, per la prima volta posso godere la visione di questa immensa vetta: una visione su un paesaggio fiabesco. È mezzanotte: una notte di luna piena. Osservando in basso si vedono le numerose vallate con le loro luci, e lungo le loro strade si vedono ancora i fanali delle macchine correre per l’asfalto. E le montagne? Illuminate a giorno offrono tutte le loro stupende sfumature. Non possiamo fermarci a lungo sulla vetta. Scendiamo velocemente lungo la cresta che porta alla capanna Vallot. Sono solo venti minuti; poi ci siamo.
Entrati nella capanna cerchiamo di sistemarci alla meglio in qualche cuccetta; ma la capanna è affollata di alpinisti che ci guardano come se fossimo delle bestie rare, o magari semplici turisti che disturbano il loro sonno.
Walter si infila in un sacco da bivacco dicendomi: «Abbiamo fatto due bivacchi scomodi, facciamone ancora uno, ma comodo: tanto dobbiamo aspettare soltanto le cinque». Non mi resta che sdraiarmi di fianco al compagno, incappucciato negli indumenti da bivacco facendo bene attenzione di non recare eccessivo disturbo ai presenti che all’indomani devono affrontare l’ultimo pendio che conduce sulla vetta del Bianco per la via normale.
Scesi a Courmayeur, non possiamo assolutamente stare tranquilli e, mentre Walter trova occupazione con alcuni clienti da portare in giro per il Bianco, io mi aggrego a Carlo Mauri e Roberto Gallieni.
Saliamo al rifugio Torino sperando di raggiungere l’attacco delle Aiguilles du Diable per compierne la traversata. Lasciamo alle due di notte il rifugio e scendiamo sul ghiacciaio del Tacul. Una folta formazione di nuvole che staziona sull’Aiguille du Midi arresta la nostra marcia. Ci sediamo sui sacchi ed aspettiamo gli eventi.
Quante volte mi sono trovato in questo luogo, e quante volte ho rinunciato per il tempo incerto! Oramai del ghiacciaio conosco ogni crepaccio: ci sono stato in tutte le ore del giorno e anche della notte. Ora devo decidere nuovamente coi compagni se continuare o no. Gallieni vede ben delineata una scarica lucente correre per il cielo ancora sereno e quindi cadere sul Dente del Gigante. L’abbiamo vista anche noi, seppure di sfuggita: strano, a ciel sereno. Ma la formazione di nuvole che copre I’Aiguille du Midi non ispira eccessiva fiducia. Credo che l’ascensione alle Aiguilles du Diable vada a monte; e infatti decidiamo, di comune accordo, di affrontare la parte Nord della Tour Ronde: è a portata di mano, e in breve tempo saremo in vetta; così, se dovesse scatenarsi una tormenta, saremo nei paraggi del rifugio Torino.
Conosco già la parete Nord della Tour Ronde, ma questa volta la trovo abbastanza impegnativa. Dato il ghiaccio vivo affiorante, Mauri deve impegnarsi in una lunga gradinatura: da farci occupare la maggior parte della giornata. La giornata ritorna ancora splendente, perciò guardiamo in direzione delle Aiguilles du Diable che si stagliano dalla cresta del Mont Blanc du Tacul in un cielo completamente azzurro. Bisogna accontentarsi: quanti programmi si fanno e quanti vengono cambiati!
Qualche giorno più tardi con Bonatti raggiungo il bivacco della Fourche. Già da qualche tempo vogliamo avventurarci lungo la parete Est del Mont Maudit per tracciare una via direttissima nel centro della parete. Questa volta ci siamo. Durante la notte, usciti dal bivacco, notiamo il cielo stranamente cambiato e molte nuvole a forma di pesce fanno la loro apparizione all’orizzonte.
Dobbiamo avventurarci o ritirarci? Decidiamo di rimandare; c’è più tempo che vita. Altra corsa al rifugio Torino ed altra discesa a Courmayeur. Per un giorno piove poi ancora il ritorno dell’azzurro. Di nuovo in partenza per il bivacco della Fourche. Questa volta siamo in tre: oltre me e Walter c’è anche Gallieni. Passiamo alcune ore in rifugio e alle prime luci scendiamo sul ghiacciaio della Brenva e ci dirigiamo verso la maestosa bastionata di circa 900 metri del versante Est del Mont Maudit.
Il pendio ghiacciato che porta alla crepaccia terminale diventa sempre più ripido, finché tocchiamo il rosso granito. Ci leghiamo a forbice; Walter attacca la parete usando subito dei chiodi. Si sale diagonalmente verso destra portandoci verso l’imbuto del ghiacciaio pensile. Roberto segue Walter quando è fermo su un terrazzo, mentre per ultimo salgo io, levando i chiodi.
Quando il sole batte in pieno sulla parete, noi siamo impegnati lungo le rampe del ghiacciaio pensile. C’è un serio pericolo: grosse slavine di neve molle scivolano lungo la parete spazzando tutto; e noi dobbiamo passare fra l’una e l’altra fino a raggiungere l’altro tratto di roccia. Finalmente, dopo qualche tiro di corda, il pericolo è sotto di noi. Abbiamo superato difficoltà di quinto grado superiore, ma sul ghiacciaio pensile dobbiamo calzare i ramponi.
Ora proseguiamo sul misto. Blocchi di granito legati da enormi colate di ghiaccio vengono superati senza levare le punte di acciaio dalle scarpe. È un alzarsi veloce, anche se le difficoltà impegnano la cordata. Un enorme camino ghiacciato ci chiude il passo: Walter vi si avventura. È un lungo lavoro di chiodi, di gradini intagliati nel ghiaccio, di enormi candele abbattute per forzare il passaggio. Finalmente Walter è fuori. Lo seguiamo immediatamente, ma sono sopraggiunte le tenebre.
La vetta è a oltre duecento metri. Occorre sistemarci per il bivacco. Su un terrazzo lavoriamo di piccozza per spezzare il ghiaccio. È un lavoro che dura mezz’ora; poi, pensando di essere abbastanza comodi, ci sediamo. Una leggera colazione e, quindi, ci infiliamo nel sacco da bivacco. Essendo in tre si chiacchiera più del solito, ci pare di essere riuniti in famiglia; ma il freddo rimane sempre, tanto più quando si è seduti su un pezzo di ghiaccio.
Schiacciato fra i corpi di Roberto e di Walter, riesco finalmente a dormire, con grande invidia dei due compagni. Loro continuano a discutere fino a svegliarmi. Anche a me non rimane che discutere; e quando si bivacca si parla molto, di tutto, perfino delle cose che non hanno nessuna importanza e che non ci riguardano. Non si toglie però mai lo sguardo dal punto dove spunterà il sole.
Ecco, finalmente il tanto desiderato sole fa capolino. È luglio e i raggi sono subito caldi. Lavoriamo più di un’ora per massaggiarci i piedi e sgelare le mie scarpe. Roberto e Walter hanno preferito passare la notte con le scarpe ai piedi soffrendo le pene dell’inferno.
La giornata si preannuncia ancora bella. Peccato che il tempo bello su questa catena di montagne duri ogni volta soltanto tre o quattro giorni: ma quando è bello, è bello davvero.
Siamo a circa duecento metri dalla vetta: precisamente alla base dell’enorme scivolo ghiacciato che porta sotto la cuspide terminale. Occorre lasciare il posto di bivacco in fretta per avventurarci sulla neve ancora dura; altrimenti il sole, allentandola, può ostacolare seriamente la nostra avanzata.
È ancora Walter che prende il comando di cordata e che affronta una breve paretina di ghiaccio: al suo termine, eccoci sullo scivolo ghiacciato. La pendenza è forte, ma la nostra marcia prosegue senza soste fino a raggiungere una cresta nevosa. Qualche minuto più tardi siamo sulla vetta del Mont Maudit. La direttissima messa in programma e tanto desiderata è stata tracciata: un’altra impresa che viene ad aggiungersi e ad arricchire la serie di ascensioni che stiamo collezionando. È una seria ascensione che presenta difficoltà ambientali e logistiche che si incontrano solo lungo il possente versante della Brenva al Bianco e lungo la parete Nord delle Grandes Jorasses. Io e Walter, conoscendo bene le difficoltà di quest’ultima, possiamo dire che la nostra impresa, sebbene sia più breve e nonostante abbia passaggi rocciosi più facili della Nord delle Jorasses, offre più severe difficoltà di ghiaccio.
Dalla vetta del Mont Maudit, passiamo sulla cima del Mont Blanc du Tacul per scendere nella Vallée Blanche e quindi, con una interminabile camminata, ci portiamo sull’Aiguille du Midi, dove con la funivia dei ghiacciai raggiungiamo il rifugio Torino e quindi Courmayeur.
Sopraggiunge il periodo di ferragosto e naturalmente anche un numero considerevole di alpinisti. Courmayeur è invasa da villeggianti, ma nelle valli adiacenti, nei campeggi e nelle baite numerosi appassionati di montagna attendono invano che il tempo sia un po’ clemente. Da parecchi giorni una fitta pioggia cade dal cielo senza interruzione e, naturalmente, oltre i tremila metri nevica.
Qualche alpinista, osando spingersi sotto la cappa del brutto tempo, va a mettersi nei pasticci.
Il Bianco è una montagna troppo severa, non bisogna assolutamente affrontarlo con leggerezza, altrimenti ne va di mezzo la pelle. Perciò rimango in casa di Walter, consultando col compagno descrizioni di itinerari e di montagne. Considerando le giornate e la neve caduta, scegliamo la via adatta da scalare durante le tre giornate belle che succederanno a questo lungo periodo di brutto tempo. Oramai del cielo conosciamo tutto: sappiamo che queste benedette nuvole quando fanno apparizione al Colle della Seigne stazionano per lunghi periodi sul massiccio, scaricando neve ed acqua in abbondanza.
Quando ritorna il sole, non ci sentiamo di avventurarci subito sui fianchi del Bianco: c’è pericolo di slavine e valanghe; e la neve fresca rende faticoso anche il cammino. Volendo però sfruttare questa prima giornata bella, decidiamo di lasciare Courmayeur per dirigerci verso la Grivola, nel gruppo del Gran Paradiso.
Siamo ancora in tre: ancora io, Walter e Roberto. Non conosciamo la via lungo la parete, ma questo non desta in noi eccessiva preoccupazione. Non conosciamo nemmeno la strada di approccio: sappiamo che dobbiamo dirigerci alle malghe di Nomenon. Ma dove sono? Sul luogo cercheremo informazioni.
Raggiungiamo in macchina l’abitato di Nieyes in val di Cogne. E un piccolo paesino posto poco sopra ai mille metri, e la vetta della Grivola è a quasi quattromila: sono perciò tremila metri di dislivello da superare e da percorrere in un soffio.
Essendo quasi sera, speriamo di raggiungere le malghe prima che si faccia completamente scuro; poi proseguiremo al chiaro di luna, oppure alla luce delle lanterne fin sotto allo scivolo ghiacciato.
A Nieyes chiediamo informazioni a un giovanotto del paese, sul sentiero che dobbiamo prendere per raggiungere le malghe di Nomenon. L’indicazione è semplice: ci dice di prendere il sentiero che si alza nella fitta pineta e, salendo sempre appoggiando a destra, si arriva al bivio di un altro sentiero; si lascia il primo per prendere il secondo. Ci indica anche delle baite su un pendio erboso al termine della pineta, molto spostate sulla destra della Grivola, e ci dice anche di non sbagliare perché altrimenti ci saremmo trovati in quelle baite.
Camminiamo decisi con passo alquanto veloce, ma il bivio non arriva. Sopraggiungono le tenebre; siamo ancora nel bosco, ma il bivio non è ancora trovato. Cammina e cammina, andiamo a sbattere il muso proprio contro le baite completamente spostate a destra della Grivola. Ci sediamo con aria di sconforto su dei sassi. Cosa si fa? Molto lontana, al di là di due vallate, si vede, illuminata dal primo raggio di luna, la vetta della Grivola. Ci rendiamo subito conto del grosso errore. Raggiungere la base della parete ora è senz’altro un vero problema. Notando un sentiero che attraversa la valle, senza parlare, tutti e tre proseguiamo la nostra marcia di avvicinamento alla montagna.
Cammina e cammina attraversiamo la prima valle, cammina ancora ed eccoci nella seconda. Alla sua uscita, uno strano odore ci dice che forse siamo vicini alle malghe di Nomenon. Sì, siamo proprio alle malghe: ci guardiamo raggianti e le intravediamo in una vallata molto ombrosa. Chissà perché spengo la torcia elettrica avanzando nelle tenebre più fitte. Sono davanti che guido la comitiva, quando tutto ad un tratto appoggio i piedi su qualche cosa che sa di poltiglia: presto mi trovo immerso fino al ginocchio in un letamaio di sterco di mucca. Gli amici, accendendo le pile e vedendomi in quello stato, scoppiano in una clamorosa e interminabile risata. Che cosa potrei fare in un momento come questo? Niente. Rido anch’io e dico: «Pensate ragazzi, se la buca fosse stata profonda due metri: quale fine ingiusta e ingloriosa per un alpinista…».
Riprendiamo la marcia fra l’ilarità generale avanzando nell’oscurità verso la parete; Walter e Roberto ora vogliono stare davanti perché io trascino una scia di profumo di mucca e peggio. Sulle rive di un piccolo rigagnolo d’acqua limpida ci concediamo una breve sosta. Sono le undici di sera. Presto tutti e tre siamo intenti nei nostri lavori. Walter sta cucinando, o meglio preparando del brodo caldo; Roberto dorme sdraiato sull’erba bagnata dalla rugiada; io sono intento, seduto su un sasso, a pulire alla meglio, con dei ciuffi d’erba, le mie calze, senza avere il coraggio di levare le scarpe.
All’una di notte, lasciamo il luogo e ci incamminiamo sul ghiaione sottostante la parete Nord Ovest della Grivola. È una pena camminare su un terreno franoso e nell’oscurità, ma dobbiamo proseguire a tutti i costi, per attaccare la parete nelle ore più fredde della giornata.
Piano piano comincia a farsi chiaro; e quando tocchiamo il primo ghiaccio dei mille metri della parete, i primi raggi del sole cominciano ad arrossare le cime del Bianco che si vede molto bene col suo poderoso versante Est. Oramai l’andare avanti coi ramponi ai piedi e con la piccozza nelle mani è diventata nostra abitudine. Presto siamo impegnati sui primi balzi dell’enorme fianco ghiacciato e Walter deve iniziare subito una buona gradinatura su ghiaccio vivo.
Nelle condizioni in cui mi trovo, avrei preferito della neve molto molle, così almeno mi avrebbe pulito le calze. Dopo un paio d’ore, le rocce che formano la prima fascia che taglia a metà la parete, sono raggiunte. Altri tiri di corda su ghiaccio ancora vivo, ma coperto da un leggero strato di neve farinosa, e quindi la seconda fascia di roccette: presto anch’essa è superata.
Guardando in basso le nostre tracce, noto che, al mio passaggio, hanno preso uno strano colore verdastro, e con immenso piacere noto che la neve comincia il suo lavoro di pulitura.
Qualche ora dopo siamo impegnati sul triangolo finale della parete. È un bello scivolo ghiacciato con tutto l’aspetto di un’importante montagna, ma, a differenza di altre volte, invece di sentire il delicato e freddo odore del ghiaccio, si sente un forte e volgare odore di stalla.
Alle nove siamo impegnati con la cresta terminale che porta sotto la vetta della Grivola. Una ultima manovra di corde ed essa è raggiunta. Rimaniamo in cima a questa piramide per circa un’ora. La Grivola si trova in una posizione ideale per osservare una enorme catena di montagne: si trova perfettamente isolata in un punto inviolabile.
Ecco si vede tutta la catena del Monte Bianco: poi, girando lo sguardo, sempre a destra, le montagne dell’Oberland Bemese, il Gran Combin, le montagne del Vallese col Cervino, il Monte Rosa e molte altre fino in fondo. C’è, molto vicino, l’Emilius; il Gran Paradiso con la sua stupenda parete Nord. Più in fondo il Monviso e tutto il gruppo del Delfinato.
La lunga camminata per arrivare all’attacco di questa montagna con tutti i suoi inconvenienti è stata felicemente ripagata con la scalata della sua parete Nord Ovest, e con la vista che si può godere da questo bellissimo spalto. Scendiamo per le marce rocce della via normale e, lungo un vasto ghiacciaio, ci portiamo in una bellissima valle, dove pascola, in tutta pace, un bel gruppo di superbi stambecchi. Sulle rive di un piccolo torrente, finalmente mi posso levare scarpe e calze per una sommaria lavatura. Riprendiamo a discendere per raggiungere il fondo valle che è ancora molto in basso. Nel pomeriggio le prime case ci appaiono come un sospiro di sollievo.
Siamo impegnati da 21 ore di cui 18 usate per camminare ed arrampicare: delle altre tre, due per un sommario riposo sotto la parete ed una per una meritata sosta sulla cima: perciò ci sentiamo a ragione molto stanchi, anche tanto, ma felici. Sembra che le giornate perdurino belle e, senza perdere tempo decidiamo ancora di avventurarci sul Monte Bianco. Sembra che ci siamo trasformati in macchine: camminare e scalare, scalare e camminare. Non siamo ancora sazi. Scegliamo la salita ad una delle due Sentinelle che portano in cima al Monte Bianco per il versante della Brenva: sul luogo decideremo per la più adatta.
Nel tardo pomeriggio saliamo in funivia al rifugio Torino e per un’ennesima volta percorriamo il ghiacciaio di Tacul diretti al bivacco della Fourche. Il sole è già tramontato da parecchio offrendoci anche un magnifico tramonto, e il tormentato versante della Brenva ci saluta con un enorme frastuono: un grosso seracco cade sul ghiacciaio sottostante sollevando una nube di ghiaccioli. «Speriamo che geli stanotte» dice Walter «altrimenti è un guaio». «Speriamo!».
Siamo ancora noi tre: io, Walter e Roberto, dimostratosi in questi giorni di una tempra eccezionale e “affamato” di montagne. Alle 11 di notte esco dal bivacco per preparare le calate a corda doppia che portano sul ghiacciaio. C’è una bellissima luna e con mio disappunto noto che non fa freddo.
Ecco il guaio: in questo momento, se la temperatura si abbassasse, mi farebbe un grande favore. Avviso gli amici del nuovo inconveniente, e decidiamo di aspettare mezzanotte. A quell’ora guardiamo nuovamente il termometro e notiamo che il freddo ha raggiunto i tre gradi sotto zero. Però dei lampi all’orizzonte destano in noi non poca preoccupazione.
Lasciamo ugualmente il bivacco: scendiamo sul ghiacciaio della Brenva e raggiungiamo, facilitati dal chiaro di luna, in brevissimo tempo il Col Moore; attraversiamo sulle roccette fino a raggiungere la Base delle Sentinelle. Non abbiamo deciso ancora quale delle due attaccare. Preferiremmo quella di Sinistra, o via Mayor, ma notiamo che la temperatura si sta ancora alzando. Sostiamo per un’ora indecisi sul da fare: nessuno parla e nessuno vuol decidere qualche cosa. Sappiamo che oggi ricorre il terzo anniversario della tragedia di Arturo Ottoz e dei suoi clienti. È stato da queste parti: se proseguiremo ci saremo fra non molto.
Osservando sempre i lunghi bagliori o lampeggi all’orizzonte, Walter propone di salire la Sentinella di Destra o Rossa, per raggiungere la vetta in minor tempo, per evitare, almeno in parte, un eventuale temporale.
Avanziamo, come è nostra abitudine, tutti e tre con la corda in mano. Un forte dolore al ginocchio, che non so spiegarmi, mi ostacola seriamente la salita lungo il primo pendio ghiacciato: è ancora la gamba sinistra; forse lo strappo muscolare procuratomi durante la spedizione in Perù si fa nuovamente sentire. Sopporto a denti stretti questo fastidioso male proseguendo nella scia dei compagni, cercando soltanto di convincere gli amici ad andare più adagio per goderne il bel panorama.
Alle tre siamo sul luogo della tragedia Ottoz: erano le cinque di mattina di tre anni fa. Guardiamo lo stretto canalone che divide le sentinelle senza proferire parola; è naturale che tutti e tre, sebbene non ce lo diciamo, pensiamo alle fasi della sciagura: scrutiamo con insistenza gli enormi seracchi sopra le nostre teste.
Ci alziamo sempre veloci e ci dirigiamo verso l’Escalier: sono roccette coperte di ghiaccio; occorre fare gradini e, per essere veloci, Walter intaglia un solo gradino per il piede destro: cioè un gradino sì e uno no. Con questo nuovo sistema ci avviciniamo velocemente alla vetta.
Il vasto e crepacciato ghiacciaio della Brenva si trova ora a 1.300 metri più in basso e, a guardarlo dell’alto, fa venire davvero i brividi: se dovessimo cadere da questo punto, una scivolata di oltre mille metri sarebbe il giusto percorso del volo, inghiottiti poi da uno dei numerosissimi e grandissimi crepacci che già tante vittime hanno “accolto”.
In un caso come questo, non è igienico pensare a queste cose. I nostri occhi sono ora rivolti verso l’alto; verso la vetta che si avvicina sempre più. La giornata è tornata splendente: il sole diventato finalmente nostro amico comincia il suo lento lavoro di bruciatura sui nostri visi. Alle otto sbuchiamo in vetta al Monte Bianco. Oramai mi sento diventato di famiglia su questa immensa cima.
Dopo una breve sosta iniziamo la discesa. Raggiungiamo la vetta del Mont Maudit; scendiamo all’intaglio che lo divide dal Mont Blanc du Tacul, e qui possiamo ammirare le cuspidi dell’Aiguille du Diable. Dal Tacul giù per la Vallée Blanche; e in una unica camminata, prima di mezzogiorno, fra lo stupore generale degli amici, entriamo al rifugio Torino. Eravamo partiti la sera prima, e non ancora a mezzogiorno eccoci di ritorno.
Purtroppo arriva anche il momento di lasciare Courmayeur per un breve riposo in città. Ma una volta in pianura il mio pensiero corre nuovamente alle montagne: eppure ne ho fatte di scalate! Presto mi ricordo che esistono anche le Dolomiti: vergogna, me ne ero quasi dimenticato!
Ora mi assale il desiderio di andarci o, meglio, di ritornarci. Mi porto a Madonna di Campiglio. Salgo al rifugio Brentei. Strano, osservando bene, tutto quello che mi circonda mi sembra diventato immensamente piccolo. Eppure sono le stesse montagne di qualche anno fa. Forse il Bianco, con la sua grandiosità, ha sconvolto un poco la mia visuale? Rimango qualche giorno nel gruppo: giro scattando fotografie a colori a picchi che mi ricordano il mio primo scalare. È ancora tutto bello e si prova un senso assoluto di riposo. Non ci sono gli immensi ghiacciai con le loro sconvolte seraccate pensili che pendono come una tagliente lama sulla testa di chi passa.
E anche le nuvole, sebbene temporalesche, sembrano più docili di quelle che ci investivano sulle fiancate del Bianco. Fra tanta pace sono assalito dal desiderio di arrampicare. Sono in un gruppo bellissimo, numerose sono le belle pareti da affrontare, ma, strano, sento il desiderio di ritornare ancora al Monte Bianco appena lasciato. Sento dentro che se devo affrontare una parete, una parete seria, devo ritornare al Bianco.
Lascio immediatamente il gruppo del Brenta e torno a casa: vado da Bruno Ferrario e con lui decido di partire subito per Courmayeur, a casa di Bonatti. Appena in casa Walter ci accoglie col solito entusiasmo. «Finalmente siete ritornati!». Siamo in settembre, e le giornate sembra siano davvero belle: tanto belle che Walter ci mostra delle fotografie dicendoci:
«Ho studiato a perfezione il tracciato di una nuova via sullo spallone Ovest del Mont Maudit; ha le caratteristiche delle Sentinelle, e a mio parere la neve è buona: siete giunti in tempo per tentare».
Ci fidiamo pienamente dell’amico che conosce il Bianco come le sue tasche. Nel tardo pomeriggio eccoci di nuovo al rifugio Torino. Prima che calino le tenebre, tutti e tre iniziamo la marcia in direzione del bivacco della Fourche, lungo il ghiacciaio di Tacul. Superando velocemente il pendio ghiacciato, eccoci dentro al nostro covo.
Per me e specie per Walter, è come se fosse casa nostra. Ma per Bruno no; per lui è un posto nuovo, perciò guarda tutto con grande entusiasmo in preda anche ad una viva emozione, rendendo felici perfino noi che di questo luogo conosciamo ogni sasso.
Una breve dormita nelle fredde coperte del bivacco: poi la sveglia. Sono solo le tre, ma occorre partire e dirigersi verso il nostro sperone, in modo da raggiungere l’attacco prima che esca il sole. Scendiamo a corde doppie sul ghiacciaio: qui, in uno sforzo per ricuperare le corde, mi sembra di accusare un leggero malore allo stomaco. Più in basso, quando ci dirigiamo alla volta dello sperone, anche questo piccolo inconveniente passa.
Non trovo le parole adatte per descrivere l’alba che sta spuntando stupendamente. La giornata si prospetta magnifica. Attraversiamo la crepaccia terminale e attacchiamo le rocce dello sperone. Bisogna calzare i ramponi; cosa abituale per noi, ma nuova per Bruno che ci segue sempre con grande entusiasmo. Usiamo qualche chiodo, e qualche passaggio ci mette in serie difficoltà; ma nel pomeriggio la cornice che chiude l’uscita sulla vetta è sopra alle nostre teste. Walter forza anche quest’ultimo passaggio e poco dopo tutti e tre ci abbracciamo raggianti sulla cima, affondati fino al ginocchio in una spessa coltre di neve farinosa e scaldati dai tiepidi raggi del sole settembrino.
Occorre non sprecare tempo prezioso: sappiamo che la discesa è lunga e che la luna stavolta spunterà molto tardi. Ed è necessario essere ai crepacci del Tacul prima che calino le tenebre. Rifacendo il percorso che passa dalla vetta del Maudit, scendiamo nella Vallée Blanche. Alla bellissima alba, fa ora eco un magnifico tramonto. Il tramonto più bello che possa ricordare. Ci fermiamo una volta tanto ad osservare le lingue di fuoco nel punto dove il sole sta scomparendo. Giunti nella Vallée Blanche ci dirigiamo verso il Torino nella più assoluta oscurità.
Un vero fiuto ci porta in rifugio, senza sbagliare di un millimetro la pista. Ora, anche questa stagione è davvero finita, ma se ne attende un’altra; poi un’altra ancora e via, sempre così. Ci saranno altre belle avventure, ed anche nuove conquiste, ma non mancheranno le amarezze e le rinunce, lo so.
Si va avanti ugualmente, mai sazi, rincorrendo un grande sogno. Lo so che sarà forse irraggiungibile, ma tuttavia è quello che serve a ravvivare in me lo spirito di combattività. È il sogno di qualsiasi alpinista: quello di misurarsi, anche per una sola volta, con le affascinanti cime del maestoso Himalaya. Chissà! Per ora ho in programma un’altra spedizione alle Ande, poi si vedrà.
Quello che ho raccontato a voi è una maniera del tutto diversa di vivere. Questa è vita vissuta fra le montagne, lungo le strapiombanti pareti rocciose e sui verticali scivoli ghiacciati: è vita vissuta fra l’attesa snervante di affrontare un problema che può essere fatale, e fra le tormente che poco lasciano a sperare per l’indomani.
Ho trovato parole per descrivere le fasi di una ascensione o di un’opera di soccorso; ho descritto qualche avventura e rievocato qualche episodio; ho raccontato anche i disagi che si possono provare durante gli interminabili bivacchi. Ma non riesco a trovare le parole per dire ciò che si prova quando si raggiunge una vetta. So solo che mi sembra di essere più leggero e più sollevato. Mi sembra anche di essere più forte. Ma ci si sente anche e soprattutto felici e questa è una cosa troppo intima, complessa e profonda per poterla descrivere.
Non mi sento nemmeno in grado di descrivere qual è la forza che ci spinge a cimentarci con le montagne: qualcuno ha detto, di noi alpinisti, che la nostra è una specie di missione che ci accingiamo a compiere, ogni volta, con tutti i sacrifici che occorrono, senza mai raggiungerne la fine. Io non lo so, ma forse è proprio così.
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