Reduce dalla Cordigliera delle Ande, ricco di un’altra esperienza, decido di dedicarmi, per un certo periodo, esclusivamente ad ascensioni di tipo misto roccia e ghiaccio. Soltanto dopo sentirò di essere un alpinista veramente completo.
Vorrei dedicarmi al Monte Bianco: conoscerlo più profondamente e finalmente raggiungerne la cima, meglio se per una nuova via. È vero, non sono mai stato sulla vetta del Bianco, e conosciuto come ormai sono nell’ambiente, arrossisco quando alpinisti in erba mi chiedono particolari sulla sua vetta. Capisco che è una debolezza, ma non dico mai che non ci sono mai stato, dico di avere sempre trovato la nebbia e di aver visto poco, anzi quasi niente.
Sono stato a 6.300 metri sulle Ande, e non ho ancora toccato i 4.810 metri della montagna più bella e più alta d’Europa. Ne ho fatto del peregrinare fra i suoi ghiacciai, ma sulla cima no. Mi riprometto la rivincita, e proprio nel mio decennale di attività alpinistica. Se dieci anni fa scalai la parete Nord delle Grandes Jorasses con Walter Bonatti, quest’anno vorrei raggiungere, sempre con lui, la vetta del Bianco tracciando una nuova via. D’altronde anche Giusto Gervasutti raggiunse per la prima volta la vetta del Bianco dopo che da parecchi anni bazzicava da una montagna all’altra; e la raggiunse tracciando un itinerario nuovo lungo il Pilone di destra.
Come al solito riprendo la mia attività ancora nel periodo invernale sulla vicina Grignetta: mi aggiro per i canaloni in compagnia di Bruno Ferrarlo, mio compagno di tante scalate su questa palestra. Non ho nessun programma invernale, e fra l’altro non sono ancora allenato per scalate su roccia pura. Il tempo, quando non si ha un programma e non si è pronti, è sempre bello. Finalmente mi decido a sfruttare la stagione clemente.
Con Carlo Mauri, incontrato durante una ascensione in Grignetta, decidiamo di andare alla parete Sud del Dente del Gigante. È una mia vecchia conoscenza, questa parete, ed ho ancora vivo nel cervello un brutto ricordo: un lungo volo per il cedimento di una placca. Allora ero alla mia terza ascensione, adesso mi dicono che è molto chiodata, perciò anche se siamo poco allenati, sentiamo di farcela.
Raggiungiamo quindi Courmayeur: siamo in tre, il terzo è Roberto Gallieni, alpinista già provato. A sera il rifugio Torino è raggiunto. È la prima volta che salgo quassù in inverno: confesso di vedere sempre lo stesso paesaggio, naturalmente con un po’ di neve. Al mattino seguente, prestissimo lasciamo il rifugio portandoci sul ghiacciaio del Gigante: calziamo gli sci .e via per il Dente. A partire però sono Mauri e Gallieni,io rimango immobilizzato con le punte degli sci incastrate sotto ad una crosta di ghiaccio. La neve è molto ventilata e proseguire è pericoloso per le caviglie, anche per sciatori provetti, mi tolgo gli sci e avanzo a piedi. Più tardi raggiungo gli amici.
Sta sorgendo il sole, la giornata si pronostica magnifica. Il superamento della Gengiva che porta alla base della parete Sud e anche della via normale è veloce, e presto siamo all’attacco delle vere difficoltà.
Ci leghiamo: io in testa, seguito da Gallieni e poi da Mauri. Il primo tiro di corda lo supero stringendo i denti: le mani mi fanno subito male per la totale mancanza di allenamento; poi il freddo ostacola i movimenti delle dita con forti crampi. Confesso di voler tornare indietro al secondo tiro di corda, ma sotto l’incessante incoraggiamento di Mauri devo andare avanti. Ora il sole ci riscalda, ridandoci calore e nuova forza per continuare. Presto il luogo del mio pauroso volo di nove anni addietro, durante questa stessa via, è raggiunto: una breve meditazione su quello che mi è capitato allora, poi avanti di nuovo fin sotto la vetta.
All’ultimo tiro di corda, trovandomi con le mani sanguinanti e doloranti, prego Mauri di prendere il comando della cordata e l’amico passa in testa forzando l’ultimo tratto. Poco dopo siamo tutti e tre riuniti sulla cima.
È un bellissimo paesaggio: tutto è bianco, e tutto è coperto di neve. Nessun puntino nero si vede in movimento per l’immensa catena: siamo soli sulla montagna. Poco dopo un aereo si aggira nei pressi del Dente: forse il pilota ci ha visti; infatti l’apparecchio fa due o tre giri poco lontano dal pinnacolo roccioso e una mano si sporge da un finestrino facendo dei saluti: in tali momenti è bello anche questo.
Percorso il breve tratto di cresta ghiacciata, presto siamo sui cordoni che attrezzano la via normale.
Ci caliamo veloci, e poi giù per la Gengiva. Si fa scuro: gli sci sono trovati quando le tenebre sono già calate; portandoli sulle spalle raggiungiamo il rifugio.
Le giornate sono bellissime e decido di rimanere per qualche tempo ancora a Courmayeur: sono ospite di Bonatti, e con lui traccio un breve programma.
Una breve ricognizione con gli sci sul vasto ghiacciaio del Tacul e osserviamo che le Aiguilles du Diable sono in condizioni ideali per essere scalate.
Ridiscendiamo a Courmayeur per preparare il materiale. All’alba del giorno dopo siamo sul ghiacciaio diretti alle Diable. Passiamo sotto alla parete Est del Gran Capucin e qui abbiamo l’occasione di complimentarci con Gigi Alippi, Romano Merendi e Luciano Tenderini, di ritorno dalla loro prima invernale alla nota parete vinta da Bonatti nell’estate del 1951. Più tardi riprendiamo la nostra marcia verso il canalone che porta alla base delle Diable. Il cielo, con nostro grande disappunto, si sta annuvolando. Da ben 28 giorni non si è vista una nuvola nel cielo del Monte Bianco: adesso, perché abbiamo in programma qualche cosa, ecco che avanzano compatte verso di noi.
All’imbocco del canalone che porta alla base dell’Aiguille du Diable, i primi fiocchi di neve ci vengono a dire che abbiamo fatto i conti senza l’oste. Ci sediamo sul ghiacciaio e divoriamo i nostri viveri; poi riprendiamo la marcia del ritorno.
«Ventotto giorni belli» dice Bonatti «e oggi nevica!».
Forse, penso fra me, abbiamo atteso un po’ troppo; e ora è troppo tardi. Di solito la primavera sulle nostre montagne è molto brutta: è quindi inutile fare un programma dettagliato. Forse è meglio decidere al momento opportuno dove andare, e cosa fare. Per questa volta, torno a casa mia, a Villasanta.
Un mattino, salito per il solito allenamento ai Piani Resinelli, trovo Carlo Mauri. È appena cessata la pioggia e sembra che debba perfino uscire il sole. Mauri mi fa subito una proposta, o meglio mi invita a partire con lui nella giornata stessa per Pontresina.
«Se tutto va bene» mi dice, «scaliamo la parete Nord del Piz Roseg».
L’idea di avventurarmi su una parete completamente in ghiaccio come lo è quella del Piz Roseg, mi mette le ali ai piedi. Accetto subito, e decidiamo di raggiungere immediatamente Pontresina.
Siamo in quattro e formeremo due cordate da due: Carlo Mauri con Roberto Gallieni, io con Carlino Aldè. Ci doveva essere anche Bruno Ferrario, ma, all’ultimo momento, pessimista nei riguardi del tempo, rinuncia a far parte del gruppo.
A dire il vero anche noi non siamo tanto ottimisti: durante il viaggio abbiamo incontrato dei piovaschi, e qui il cielo è molto burrascoso. Ad ogni buon conto siamo tutti e quattro dello stesso parere: meglio una passeggiata senza alcun risultato, che essere nuovamente fra le troppo popolate guglie della Grignetta.
Percorriamo un tratto di strada che attraversa il parco nazionale svizzero sotto al Bernina a bordo di un carro trainato da un cavallo, quindi si prosegue a piedi verso il rifugio. All’alba ci incamminiamo verso l’imponente scivolo di ghiaccio che forma la parete. Attraversiamo prima un vasto ghiacciaio per entrare in quello che precisamente porta sotto il nostro obiettivo. Il cielo è completamente stellato: forse avremo una giornata splendida.
Più tardi i primi raggi del sole arrossano la maestosa parete Nord del Roseg. Sono 900 metri di dislivello con difficoltà che presentano, nel finale, tratti di 60 gradi di pendenza: una parete che offre una delle più severe arrampicate su ghiaccio di tutte le Alpi Centrali.
Facciamo una breve sosta sul ghiacciaio, non per riposarci, ma per vedere ed osservare meglio il percorso da seguire.
«Ecco» mi dice Mauri, «dobbiamo attaccare dove la crepaccia terminale è molto stretta, salire veloci appoggiando a destra in modo da evitare la seraccata posta a metà parete: questa può essere, col sopraggiungere del sole, un serio pericolo per la caduta di qualche blocco di ghiaccio; perciò è assolutamente necessario non perdere tempo».
Attacchiamo la crepaccia terminale: Mauri compone la cordata di testa con Gallieni; io lo seguo immediatamente tenendo legato Aldè.
È il primo tiro di corda che ci impegna, o meglio che impegna me. Sono solo una trentina di metri dove affiora del ghiaccio verde e duro. Mauri ha fatto dei gradini, ma li ha fatti troppo lontani l’uno dall’altro: quindi io, avendo le gambe molto più corte di Mauri, devo intagliare un gradino supplementare fra quelli già scavati. Quando sono al termine del tiro, Mauri e Gallieni sono già avanti un centinaio di metri. Un veloce inseguimento su neve buonissima senza alcun uso di altri gradini, e nei pressi delle roccette, proprio all’altezza dei seracchi, Mauri e Gallieni sono raggiunti.
Ora il pericolo sopra le nostre teste non incombe più, ma la parete si fa più ripida e un leggero strato di neve marcia sopra un ghiaccio durissimo ci mette in serie difficoltà, obbligando Mauri a una lunga ed estenuante gradinatura.
Ammetto di avere commesso un’imprudenza. Abbiamo portato solo due chiodi da ghiaccio: forse pensando al molto innevamento non occorrevano; ma in questo caso la loro mancanza si fa sentire.
Ci leghiamo in un’unica cordata, facendo fermata tutti e quattro assicurati ad un solo chiodo piantato su una terrazza costruita a colpi di piccozza. Mauri prosegue gradinando il ghiacciaio; al termine della corda intaglia un altro terrazzo, pianta il chiodo e poi proseguono i due compagni; frattanto io, con cura, tolgo il chiodo che ci è servito per assicurazione, proseguo a mia volta e passo il chiodo a Mauri. Il compagno ripete ancora la stessa manovra. Non so quanti gradini sono stati intagliati e non ho contato nemmeno le volte che abbiamo usato e strausato i due chiodi. So che con due soli chiodi siamo arrivati fin sulla vetta a mezzogiorno.
Sopraggiunge la nebbia nascondendo il sole che ci ha accecati durante l’ascensione.
Mi sento soddisfatto, molto soddisfatto: è la prima volta che scalo una parete tutta di ghiaccio e con severe difficoltà. Questo elemento lo avevo affrontato in molte ascensioni, e già mi ci ero provato in qualche breve scalata come ad esempio la parete Nord della Tour Ronde: nelle Ande, poi, tutto era di ghiaccio, ma diverso da quello delle nostre Alpi; molto più soffice e molto più spumoso. Questo invece era un lastrone lungo 900 metri e di notevolissima pendenza. Una bella novità, che mi fa promettere di dedicarmi con molta serietà a questo tipo di ascensioni che offrono lo spunto di praticare l’alpinismo puro.
Scendiamo per la cresta Ovest verso il ghiacciaio alla base della parete. A un centinaio di metri dal rifugio, comincia a cadere una fitta pioggerella. La pausa di bel tempo, nella lunga serie di giornate cattive, è finita; ed è finita quando noi siamo entrati in rifugio. Più fortunati di così non potevamo essere, o meglio: il tempo ha voluto premiare il nostro coraggio di avere deciso, in quattro e quattro otto, di andare alla base della parete Nord del Roseg; ma premiarci di misura, il giusto per scalare la parete.
Ora questo genere di scalata mi riempie di euforia.
Arrampicare così è divertente e non snervante, come quando si pensa di affrontare una parete di sesto grado: allora si rimane interamente occupati a riflettere e a pensare; sono molti gli ostacoli che si preannunciano: il tempo con le piogge che fanno diventare la roccia viscida; la friabilità o la compattezza della parete che obbliga a portare diversi tipi di chiodi e questi pesano nel sacco; il trovare un posto da bivacco comodo: e si potrà passare?
Andare alla base di una parete di ghiaccio è un’altra cosa: un piccolo zaino con lo stretto necessario e dire «male che la vada taglierò tanti gradini», ed è bello anche pensare che durante la giornata si può raggiungere la vetta senza l’uso del bivacco.
Devo dire però che questo tipo di arrampicata ha le sue incognite: è un alpinismo più severo, grandioso come lo sono le montagne che lo creano, e pericoloso. Molte sono le slavine e le seraccate che travolgono scalatori; molti sono i crepacci che si aprono sotto ai piedi. Ma io ora ne sono entusiasta.
La domenica seguente, ancora armato di sacro entusiasmo raggiungiamo Chiesa di Valmalenco. Sono in compagnia di Bruno Ferrario e di Vasco Taldo e, sebbene il tempo non sia bello, sono convinto che qualcosa faremo.
Il programma, questa volta studiato in città, è di salire la parete Nord del Disgrazia, ma, giunti sul posto e vedendo che il cielo si mantiene nella sua cappa grigia, cambiamo decisamente itinerario.
Scegliamo la parete Nord della Cima di Rosso: ha I’ approccio più vicino, ed è anche molto più sbrigativa per la breve e non complicata discesa.
Raggiungiamo in serata il bivacco Del Grande Camerini e passiamo la notte.
Frattanto un forte vento soffia per tutto il tempo facendoci pensare ad un cielo completamente spazzato da ogni traccia di nuvola. Quando usciamo dal rifugio per dirigerci verso la nostra montagna, osserviamo tutti e tre, senza lamentela, la neve cadere con la più grande disinvoltura. Sarebbe stato troppo bello ottenere il risultato della domenica precedente: pazienza, siamo tutti dello stesso parere, qui verremo nuovamente.
L’estate si avanza sempre con quel suo carattere temporalesco e minaccioso, ma ciò non ci ostacola, almeno nello stendere programmi. Ora è la volta di Courmayeur. Con Bruno Ferrario mi reco a casa di Walter Bonatti e qui studiamo il nostro progetto. Walter ci mostra lo schizzo di una parete di granito interamente inviolata. È la parete Ovest del Petit Mount Gruetta: sono 800 metri di parete che si alza all’imbocco del ghiacciaio del Frebouzie, molto vasta e completamente vergine.
È pane per i nostri denti e, dato che la Punta Bosio o Petit Mount Gruetta è molto bassa, avremo il vantaggio di trovare la parete pulita da ogni traccia di neve.
Nel pomeriggio ci portiamo in Val Ferret e quindi risaliamo il sentiero che porta al bivacco del Frebouzie.
A sera il bivacco è raggiunto: mentre Bruno prepara alla meglio le coperte distese sul tavolato, io e Walter risaliamo il tratto di ghiacciaio per raggiungere e individuare l’attacco della parete. Una striscia di neve a ponte col granito della parete ci dice che quello è il giusto punto.
All’indomani lasciamo il bivacco molto presto e poco dopo ci leghiamo all’attacco della parete. Mi lego in mezzo a due corde ai cui capi sono legati Walter e Bruno, ma, essendo le difficoltà di carattere libero, cioè non artificiale, Walter attacca per primo, seguito da me e poi da Bruno. Superando una serie di complicati passaggi in arrampicata libera, avanziamo velocissimi verso il centro della bastionata.
Nella fase centrale della parete, Walter mi cede il comando della cordata, più tardi avanza ancora lui. Bruno, entusiasta e molto allegro, ci segue veloce come se fosse un pivello: non che Bruno sia vecchio, ma, avendo lui una figlia della nostra età, ci sentiamo di considerarlo come padre durante tutta l’ascensione. Noi davanti spensierati, giocando con le difficoltà, lui sempre attento e calmo, prudente e sicuro. Alle 11 siamo sulla vetta del Petit Mount Gruetta al cospetto della Walker delle Grandes Jorasses: la guardiamo silenziosi. È naturale che sia io che Walter riviviamo in questo momento le gesta di un tempo. Ora guardandola la trovo ancora maestosa, piena di fascino e di insidie.
«Ricordi» mi dice Walter «dieci anni fa...».
Sì, dieci anni fa, con lui su quella muraglia: proprio nel nostro primo anno di attività alpinistica: che follia… eppure c’è andata bene. Sono passati dieci anni e non pare vero: mi sembra che sia stato ieri o almeno poco tempo fa, mi pare di vedermi ancora sotto la cornice terminale intento a formare la piramide umana per sbucare sulla vetta.
I nostri visi da allora sono molto cambiati: ora non sono più imberbi e sul volto comincia ad apparire qualche ruga. Allora avevamo diciannove anni, adesso sono ventinove; ma in questo momento ci sembra di essere proprio tornati indietro di dieci anni, naturalmente molto più ricchi di esperienza e con le idee più chiare in testa.
Poco dopo iniziamo la discesa lungo la cresta Sud. Una discesa interminabile, che finisce quando incominciano ad aprirsi le cateratte del cielo.
Bruno Ferrario torna in città; io rimango ospite di Bonatti; così abbiamo a disposizione del tempo per fare progetti e qualche tentativo.
Occorre allenarci più seriamente sull’artificiale. Una serie di ascensioni in palestra servono a scioglierci definitivamente le braccia, e in quanto al fiato qualche camminata sui ghiacciai ci sistema a dovere.
Il primo tentativo fallisce: tentiamo di tracciare una via diretta sulla parete Est del Mont Maudit, ma rinunciamo quando ancora siamo all’attacco. Avendo del tempo a disposizione e trovandoci sul ghiacciaio della Brenva, Bonatti mi invita a salire al Col Moore. Da qui si ha una stupenda visione di tutto questo versante. Siamo nel cuore del Monte Bianco, sul versante più vitale e più complicato, dove gli enormi seracchi pensili sono in eterno movimento.
Prima di mezzogiorno risaliamo nuovamente al bivacco della Fourche, scendiamo sul ghiacciaio di Tacul e via al rifugio Torino.
Ora studiamo il sistema per tracciare una nuova via che porti in cima al Monte Bianco: quella del Pilastro Rosso del Broilà. Il nome è stato dato da noi per il suo granito rossastro e la sua caratteristica di enorme pilastro. È un grosso torrione slanciato che si alza dal tormentato ghiacciaio del Broilà per circa 450 metri e finisce ad una selletta, staccato da una parete meno difficile che porta sulla vetta del Picco Luigi Amedeo. Seguendo poi la complicata cresta del Broilà, si raggiunge la vetta del Monte Bianco. Sarebbe questo il nostro programma .
Non so quante volte siamo saliti al rifugio Gamba: so solo che ogni volta il tempo non era in condizioni ideali. Finalmente una notte, preannunciandosi più fredda delle altre, ci fa sperare in un tempo stabile. Lasciamo il rifugio Gamba alle due, percorriamo il tratto di morena al chiaro di luna e quindi entriamo sul tormentato ghiacciaio. Calziamo i ramponi e la marcia prosegue nel silenzio della notte: nessuno di noi due parla, si ode soltanto il caratteristico rumore dei ramponi che mordono il ghiacciaio, ed il regolare e forte respiro delle nostre narici. Ora siamo quasi nella più assoluta oscurità, la luna nascosta da un costone roccioso manda i suoi raggi lontano. Un colpo secco: un tonfo al cuore e una precipitosa fuga verso sinistra nel vasto imbuto che forma il canalone ghiacciato. I ghiaccioli del seracco caduto ci sfiorano lasciandoci illesi. Ci guardiamo in faccia senza parlare, ma nei nostri occhi si nota la stessa espressione: ancora una volta l’abbiamo scampata bella.
Ci alziamo sempre più per il complicato ghiacciaio. Si fa giorno e noi siamo ancora alle prese coi delicati ponti di neve che nascondono i numerosi crepacci.
Walter, per passare uno di questi ponti molto sottili, deve strisciare avanzando delicatamente sotto la mia continua sorveglianza. Il ponte potrebbe rompersi e quindi è facile vedere sparire da un momento all’altro l’amico, perciò occorre rimanere sempre in una buona posizione di sicurezza. Poco dopo è la mia volta. Ora che il ponte è superato occorre proseguire in fretta, prima che i raggi del sole abbiano a sconvolgere il ghiacciaio.
Alle otto rimontiamo la calotta che porta all’attacco del granitico pilastro. Una sosta per prepararci e riordinare anche le idee.
Magnifica è la visione che si gode da questo punto: ma osservando il ghiacciaio e osservandolo bene ci viene da dire che difficilmente si potranno rimettere i piedi per una seconda volta su questo labirinto, tanto si presenta complicato.
Il primo ostacolo che offre il Pilastro Rosso è il suo attacco. Un piccolo diedro offre una fessura- facile da chiodare, ma completamente coperta di ghiaccio: Walter dove impegnarsi in un lungo lavoro di pulitura a colpi di piccozza. È un lavoro degno di lui. Al termine di questo diedro ci riposiamo su un comodo terrazzo; ora la parete è esposta al sole, il granito è caldo, perciò conviene iniziare la nostra scalata sulla lunga serie di diedri che forma la struttura del Pilastro.
Avanzo subito veloce prendendo il comando della cordata: Walter mi segue immediatamente ricuperando i chiodi. Le difficoltà si susseguono alterne: a volte complicate e a volte molto comode da superare. Il maggior ostacolo è dato dal ghiaccio che staziona nelle larghe fessure. Un tiro di corda complicato ci fa perdere del tempo, ma anche questo è risolto. Si va su sempre molto veloci: la fascia centrale coperta di ghiaccio è anch’essa presto superata, al termine di essa raggiungiamo due comodi terrazzi.
È quasi sera: la posizione per bivaccare è comoda, ma si potrebbe ancora proseguire: e poi se non troviamo il posto per bivaccare? Bonatti decide di salire un tiro di corda e di lasciare una corda fissa per il giorno dopo. Così avviene, e prima che tramonti il sole ci infiliamo nei nostri sacchi in attesa che passi la notte.
Siamo seduti su due piccoli terrazzi: uno sopra l’altro, cioè Walter è un metro sopra di me, e coi piedi nel vuoto, come se fossimo seduti su un muretto. Cerchiamo di far passare le ore rivivendo un poco le nostre avventure.
Frattanto il cielo si è fatto nero; una folta nuvolaglia grigia si avanza da Ovest: poco dopo ecco le prime folate di nebbia. Peccato, stanotte non avremo la luna.
Più tardi succede quello che per tutta la giornata non avevamo previsto: nevica. Nevica proprio: un fitto nevischio turbina intorno a noi. Rimango immobile e in silenzio nel mio sacco.
Anche Walter non dice niente: credo stia meditando come faccio io.
Dopo qualche ora comincia il monotono lavoro di scrollatura della neve che ci sta seppellendo sul terrazzo. La notte comincia ad essere interminabile e la continua caduta di neve ci preoccupa seriamente. Sono pensieri tetri quelli che ci passano per il cervello. Sappiamo di essere su una parete molto lontana da qualunque posto di soccorso: e se fossimo in condizioni di chiedere aiuto, saremmo uditi? E anche se ci sentissero, saranno in grado i soccorritori di salire per portare aiuto? Mi vengono i brividi. Sembra ridicolo, ma l’unica cosa cui riesco a pensare è la mia moto. Uno strano pensiero che mi tiene occupato per tutta la notte. Se dovessi morire quassù assiderato, chissà come faranno i miei genitori a ricuperare la moto che ho lasciato in fondo valle.
Su una parete così, circondato da mille insidie, pensavo alla moto… almeno fosse una bella ragazza!
Al mattino, quando usciamo dai sacchi, nevica ancora: tutto ciò che ci circonda è coperto. Sappiamo che la nostra salvezza è giù nella valle, fuori dal percorso del ghiacciaio. Bisogna raggiungerlo a tutti i costi, se no addio.
Non leviamo gli indumenti che ci sono serviti per passare la notte: abbiamo freddo e per il momento ci riparano ancora. Walter risale il tratto attrezzato con la corda fissa, la ricupera e ritorna nuovamente sul terrazzo. Ora comincia la lunga serie di discese a corda doppia. L’unica nostra preoccupazione per il momento è di piantare bene i chiodi; per il resto vedremo.
Sono discese complicate che ci fanno perdere del tempo prezioso; ma cosa conta il tempo quando c’è in giuoco la pelle? Niente. Grazie alla completa fiducia che abbiamo l’uno verso l’altro e alla nostra esperienza, moralmente rimaniamo tranquilli. Si lavora, fra questo elemento freddo che ostacola i movimenti, e su questo granito coperto di insidioso vetrato, come se fossimo impegnati in una fabbrica tanto è la nostra abitudine, ma naturalmente è un lavoro sempre rischioso. Il ghiacciaio è raggiunto: ora bisogna percorrerlo. È completamente cambiato e, naturalmente, in peggio: la spessa coltre nevosa ostacola la marcia, e il crollo di parecchi ponti ci fa girare per parecchie ore sulla bocca dei voraci crepacci.
A un certo punto Walter avanza sdraiato, strisciando su una neve diventata pesante: sotto vi sono numerosi crepacci nascosti. Tenendo la corda in tiro, a mia volta seguo la manovra del compagno; e proseguiamo così sotto l’incessante nevischio che turbina intorno a noi.
Quando arriviamo alle rocce della Punta Innominata, sappiamo di essere salvi, e trovare il rifugio è cosa certa, seppure ancora difficoltosa. Alle 1O di sera possiamo ripararci dentro le sue pareti di legno.
Ancora una volta il Bianco ci ha messi alla frusta; ma ancora una volta siamo usciti incolumi dalla brutta avventura.
A casa di Walter non si dorme. Il Pilastro Rosso è entrato a far parte della nostra vita: forse esagero, ma è così; e la signora Bianca dove sopportarci con rassegnazione, tanto da pregare che il giorno della conquista arrivi presto.
Partiamo nuovamente: il tempo sembra si sia rimesso; osservando il Pilastro lo si vede abbastanza pulito da incrostazioni di ghiaccio.
Saliamo al rifugio Gamba con tutto il materiale, ma, vedendo il tempo diventato ancora incerto, ridiscendiamo: è una sbalorditiva corsa; di notte, nel breve tempo di due ore, raggiungiamo Courmayeur, a piedi, percorrendo tutta la Val Veny.
Nel pomeriggio risaliamo nuovamente al Gamba. Un breve riposo e a mezzanotte, al chiaro delle lampadine tascabili, lasciamo il rifugio. Non entriamo subito sul ghiacciaio del Broilà: la seraccata che ci ha sfiorato è ancora fresca nella nostra memoria. Risaliamo le roccette della Punta Innominata fino a raggiungere il tormentato ghiacciaio molto più in alto. E finalmente, eccoci all’attacco.
Walter attacca il suo camino lavorando di piccozza, mentre io attendo nel fondo del canalino. È un lavoro faticoso quello di Walter: lo vedo impegnato al massimo, finché raggiunge il comodo terrazzo. Ora è la mia volta: comincio a salire il piccolo canalino, ma ho percorso solo pochi metri che sento Walter gridare ad alta voce:
«Attento, Andrea!!…».
Guardo istintivamente in alto e vedo una gran cosa luccicante precipitarsi verso di me, sento un enorme colpo in pieno viso e quindi un grande calore. Quando mi riprendo, sento il sangue colare dal naso e da alcune parti del viso: comprendo che un enorme candelotto di ghiaccio staccatosi dall’alto mi ha colpito in pieno, lasciando le tracce del suo passaggio sulla mia faccia. Raggiungo Walter che subito si dà da fare per incerottarmi la fronte, naturalmente incoraggiandomi: poi mi batte una mano sulla spalla dicendomi:
«Anche questa volta ti è andata bene».
Prendo il comando della cordata e cominciamo subito ad arrampicare molto veloci, senza soste: i chiodi entrano nella roccia sotto decisi colpi di martello e le lunghezze di corda si susseguono una dopo l’altra. Alle 13 e 30 il punto massimo del precedente tentativo è raggiunto. Raggianti acceleriamo ancora l’andatura superando altre difficoltà, strisciando in verticale su placche ghiacciate. Sembra una corsa tra il sole e noi; siamo noi che vinciamo: prima che il sole tramonti, la vetta del Pilastro Rosso è raggiunta.
All’intaglio che divide il Pilastro dalla cima del Picco Luigi Amedeo, ci diamo alla ricerca di un posto da bivacco. Poco dopo siamo sdraiati su due terrazzini consumando una magra cena.
Mi infilo nel sacco e subito cado in una specie di dormiveglia che durerà tutta la notte. Walter non dorme: ad intervalli mi chiama, dandomi notizie di carattere meteorologico. Sembra che questa notte il cielo lo interessi in modo particolare. Walter mi informa ancora che all’orizzonte ci sono delle strane formazioni di nuvole.
Il suo intuito gli fa presagire una bufera.
Ne è sempre più convinto e non vuole indugiare oltre. Così alle cinque, nonostante la temperatura ancora rigida, siamo già impegnati sul fianco ghiacciato che porta sul Picco Luigi Amedeo. Sono tre ore e mezza di arrampicata su medie difficoltà: ma sono anche tre ore e mezza di sguardi inquieti verso le Grandes Jorasses e il gruppo dell’Aiguille Verte, su cui a nostro parere soffia già la tormenta.
Alle 8 la sommità del Picco Luigi Amedeo è raggiunta. Non ci fermiamo molto: via, via per la cresta del Broilà, tanto più che la tormenta si avvicina sempre più. Il percorso sulla cresta del Broilà è complicato per la serie di passaggi ostacolati da comici e crestine di ghiaccio: alle 11 la vetta del Bianco è a portata di mano, ma proprio in questo momento si scatena il finimondo. La tormenta ci colpisce proprio sulla cima: sembra che ci aspettasse in agguato, ed ora si scatena con tutte le sue forze. È quasi una beffa, oppure che la tormenta si sia presa l’incarico di farci pagare la via nuova da noi aperta?
La visibilità è ridotta a meno di dieci metri, il vento è fortissimo, il nevischio toglie il respiro e acceca. Sopraggiungono anche i fulmini: ecco il vero pericolo. Vibriamo come se fossimo investiti da continue scariche elettriche, l’acciaio della piccozza sobbalza nella mano contratta: abbiamo paura di essa perché sappiamo che attira i fulmini, ma non possiamo abbandonarla. Quante volte siamo presi dalla voglia di fare un buco nella neve e buttarci dentro, ma si corre un altro pericolo, quello di congelarci i piedi. Avanziamo sempre penosamente nella bufera: l’unica speranza è di passare sulla massima vetta del Bianco e di scendere sul versante francese per raggiungere la capanna Vallot, nostra salvezza.
Un colpo di vento fortissimo mi chiama alla realtà; lo segue un altro, poi un altro ancora più forte e gelatissimo. Appena si placa un poco, Walter mi guarda, per la prima volta da quando siamo in parete la sua faccia è irriconoscibile; ma fra due fessure di granelli di ghiaccio vedo brillare i suoi occhi, poi fra l’ululare del vento lo sento gridare.
«Andrea!… Siamo sulla vetta!…».
È un frenetico abbraccio. Sono commosso, è la prima volta che mi trovo sulla cima di questa maestosa montagna, e cosa vedo? Nulla: nebbia a destra e nebbia a sinistra, nevischio accecante e una piatta calotta nevosa. Ma non importa; l’importante è averla raggiunta e per una via nuova proprio con Bonatti, festeggiando così, a nostro modo, i nostri dieci anni di alpinismo.
Sempre frustati dalla tormenta, con enormi sforzi, scendiamo lungo il versante francese dirigendoci verso la capanna Vallot. Per due ore vaghiamo fra enormi crepacci ed esili crestine, ostacolati dall’accecante tormenta.
Grazie ancora all’intuito di Walter che, ritenendosi nei pressi della Vallot non volle più abbassarsi, girovaghiamo ancora un po’ su questo dosso ghiacciato e finalmente sbattiamo il muso contro le luccicanti lamiere. Ora siamo davvero salvi.
Fuori dalla capanna, sembra che la tormenta sfoghi la sue ire contro il piccolo cubo di alluminio, pare che da un momento all’altro lo debba strappare dai suoi cavi per portarlo altrove. In verità non ci badiamo molto. Avvolti nelle umide coperte cerchiamo di chiudere occhio, ma non ci riusciamo: siamo troppo . felici per poter dormire. Non ci rimane che ascoltare la tambureggiante musica che produce la lamiera del rifugio sotto i colpi di vento.
Quando scendiamo a valle, in un caso come questo, tutto è bello, anche se la discesa è sempre noiosa; ma non importa, tanto il lungo cammino rimane alleggerito in discussioni e in considerazioni nel rievocare quello che è stato fatto.
Più la montagna ci mette alla prova, maggiore è la soddisfazione e molti diventano gli eventi da rievocare.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.