personaggio

Ciao “Topolino”

Era nato nel cuore della guerra e di Villasanta. Terzo figlio di papà, autista del pullman-navetta Villasanta-Monza e di mamma, come le mamme di allora, intente a mettere d’accordo il pranzo con la cena.

Il nomignolo di Enrico, ognuno aveva il proprio, venne in automatico; sintesi diretta di quell’irrequietezza indomabile e di una intelligenza guizzante che lo portava oltre al limite della monelleria.

Come molte menti di quel popolo, Enrico avrebbe dovuto studiare…” Ma me, l’è ul balòn,t’al see..”. L’aveva nel sangue.

E allora, pane, polvere e pallone. Come per tutta quella gioventù che rincorreva il futuro.  Ma nella passionaccia di Enrico c’era il quid che faceva la differenza; la sua grande chance l’ebbe, giovanissimo, con l’Atalanta che l’avrebbe ingaggiato. Sì, se non fosse emerso un misterioso malessere che stroncava sul nascere il sogno e gli  spalancava davanti la lunghissima lotta contro un nemico sconosciuto.

L’esistenza di Enrico cambia verso: il calcio visto solo dalla panchina e per il resto, per tutto il resto, c’è il lavoro quotidiano.  Metalmeccanico, quasi subito alla “Colombo Agostino” ma anche lì, in modo tutt’altro che banale; vissuto in prima persona.

Enrico Ferrario è un delegato sindacale degli operai, ai tempi delle “Commissioni interne”; non gli manca nè personalità né ragione e il come  lui la pensi, tu lo capisci nel giro di mezzo minuto. Quale che sia la questione.

Noi, all’oratorio del don Angelo lo incontriamo agli inizi dei ’60. E’ il nostro allenatore perché succede ad Angelo Cambiaghi in una Cosov che non sa ancora che farà da grande.

Ci alleniamo al buio, sullo sterrato davanti alla chiesa. C’è solo una lampadina (una) e quell’adorabile bastardo di Nordhal tira sassate omicide con palloni verniciati a mano che quando ti beccano ti fanno un male bestia.  Ci sciacquiamo nel mastello di pietra con acqua gelida e il nostro allenatore (i “mister” non erano ancora apparsi nei radar) ci impartiva lezioni nonsoloditattica ma di etica sportiva, valori esistenziali, persino di abbigliamento, di “come” si va in campo….cresciamo con lui in un intreccio di fratellanze, complicità e sogni che ci fanno volare sulla nostra giovinezza e portiamo a casa anche delle figure straordinariamente apprezzabili. Enrico, in questo, aveva il dono della credibilità. Era d’esempio.

Poi la vita ha srotolato un racconto popolare lungo decenni, Enrico è rimasto ancorato al suo “balòn” in varie forme. Negli ultimi vent’anni in quella di parafulmine di un campus calcistico in cui ha affrontato centinaia di papà che tenevano per mano ciascuno il proprio personalissimo prodigio del fulbàr…

Uomo profondamente schietto, conosceva i confini cui lo spingeva il suo carattere appuntito, di quelli che non ti mandano a dire, insomma…Era attorniato di amici, di “padri e figli Cosov” che gli riconoscevano, in fondo, di avere avuto ragione. La sua eleganza d’antan (mitici i nodi delle sue cravatte negli anni ’60) in qualche modo l’ha seguito per tutta la vita, come quel  doloroso verdetto bergamasco.

Qualche tempo fa mi sorprese vederlo leggere le preghiere dal podio durante la messa…chissà perché; c’era qualcosa che non mi quadrava….Oggi mi dicono che, così come per il compianto Cesare Nava, anche per Enrico Ferrario, che al tavolo delle carte era un maestro severo, i primi segni di un declino annunciato stiano in un paio di giocate non degne di lui.

Ti hanno perdonato, Enrico, abbiamo capito tutto, ma dopo. Ciao Topolino.

 

 

 

Franco Radaelli

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