I soprannomi del nostro passato. Minuscole comunità che ci riconducono a vicende persino secentesche.
Ul Dussèll, piccolo dosso, è ancora lì da vedere, sul lato sinistro di viale della Vittoria, a ridosso della Rossi Lorenzo; del tutto ricostruito in chiave ultramoderna. Un luogo davvero molto rappresentativo, per quanto di dimensioni ridotte rispetto a quelli che abbiamo visitato fino ad oggi.
Pochi nuclei familiari, numericamente assai nutriti, hanno messo radici fin dal ‘700 in questa cascina, davanti a prati verdissimi e ricchi di acque; declinanti dolcemente verso il Lambro. Con i Rossi, appunto, una prima parte di Gaiani e dei Villa. I Radaelli del ramo Salamén, per via della specializzazione in macellai di suini, i Caspani, i Pennati e i Tagliabue Buètt.
Su quei prati, avanti fino alla Villa Vecchia (in fondo a Via Montello all’incrocio con via della Resega, dove oggi c’è la pizzeria Villa Vecchia appunto, n.d.r), e ancora più in là, i nostri avi hanno impiantato un supporto essenziale alle tessiture del territorio: la sbianca. Il candeggio delle lunghe pezze di cotone, di lino e di canapa che uscivano ancora grezze dai telai, in attesa di essere trasformate in prodotti tessili commerciabili, ricchi del necessario valore aggiunto.
Anche qui insomma, come del resto nei campi e in cascina, con gesti differenti, ma a costo delle stesse durissime fatiche, si srotolano storie che riguardano famiglie proletarie, determinate ad una dignitosa ricerca di futuro.
Tutta quanta l’attività si svolge a mano, come potete immaginare. Decine e decine di donne in filanda, prima della Rivoluzione industriale, altrettante sui prati e nelle rogge del Dossello e paraggi, a gettare acqua sulle lunghe pezze stese sull’erba al sole e poi di nuovo a risciacquarle nella roggia e poi ancora al sole finché non avessero raggiunto quel grado di candore e morbidezza che le rendeva accettabili.
Lavandée da tela, è stata a lungo una peculiarità del nostro territorio. Tanto tipica da guadagnarsi più di una rappresentazione pittorica nel panorama lombardo dell’800.
Da questo punto di vista ritengo sia fondamentale approfondire questa pagina di storia avvalendosi dei preziosi inquadramenti di Guido Battistini qui e anche qui.
Poco dopo la fine della Grande Guerra, consentiteci lo stridente balzo nel tempo, l’evoluzione di questa civiltà cambia rapidamente ritmo e dimensioni. Il titolo è: Industrializzazione.
Giù in Villa Vecchia, anni ’20, sono nati un paio di stabilimenti industriali: l’Ambrogio Radaelli e la Rossi Simeone; si occupano di candeggio e finissaggio di tele tessute, provenienti dai moderni opifici che hanno decuplicato i volumi prodotti.
Utilizzano innovazioni tecniche introdotte dalla Rivoluzione industriale di fine ‘800, come abbiamo già rilevato parlando delle filature e delle tessiture di inizio XX secolo. Ma di questa epoca, del conseguente destino del Lambro, e della mutazione genetica che avvolgerà questa parte di paese avremo modo di parlare nel capitolo dedicato alla Villa Vecchia, appunto.
Lasciatemi concludere con un focus sul marchio Rossi Lorenzo e figli che campeggia con orgoglio su questo lembo di terra. E’ la nostra ultima bandiera in navigazione nel mare agitato della post-globalizzazione. Una fase economica che ha letteralmente fagocitato buona parte del tessile italiano.
Il logo rilancia il nome del capostipite di una dinastia che, con i figli Anacleto, Antonio e Annibale, appena terminata la seconda Guerra mondiale, era ripartito sulla filiera della Nobilitazione e finissaggio di tessuti. Oggi appartiene ai marchi top di gamma nel segmento produttivo dell’alta moda, in una competizione in cui le certezze durano lo spazio di un mattino.
I Spadétt
E’ l’ultimissima propaggine del territorio villasantese: il Molino Sesto Giovane, incastrata fra noi Arcore e il Lambro. E di questa posizione semiclandestina, da énclave di Sesto San Giovanni (come illustrano le ricerche di Guido Battistini www.storiadivillasanta.it), sembra ancor oggi pagare le conseguenze. (No, è meglio che la pianti con questo tono semiserio perché sto rischiando la vivacissima reazione della gentile signora Gambirasi, che mi sta aspettando al varco…).
Dicesi Molino Sesto Giovane, alias Spadétt, un piccolo villaggio fluviale sorto sulle rive del Lambro ma, più precisamente, proprio là dove la roggia Gallarana usciva dallo stesso fiume.
Gallerani e Ghiringhelli; due nobili casati apparsi durante la dominazione del Ducato di Milano. Siamo attorno alla metà del nel 1500. Queste due famiglie sono plenipotenziarie di vasti territori qui in bassa Brianza.
Al servizio di queste proprietà, vengono sanciti protocolli ufficiali da cui derivano veri e propri contratti che prevedono l’immissione a monte (siamo attorno al lago di Pusiano), e la conseguente emissione a valle (appunto al Mulino Sesto Giovane), delle medesime quantità d’acqua e si autorizza la costruzione di rogge ad esclusivo utilizzo degli usufruttuari.
Il villaggio nasce con una esplicita, seconda finalità: mettere in movimento, attraverso l’utilizzo di acque e mulini, tutta un’economia di territorio legata a lavandai, mugnai, vinai e follatori di lane (produttori di feltro per cappelli e indumenti), poi utilizzare le medesime acque per irrigazione dei prati e lavaggi dei tessuti.
E’ notevole la costanza con la quale nel tempo si è tenuto fede a questa vocazione originale. Le pale del Mulino Sesto Giovane hanno prodotto per secoli farine, vino, feltri ed energia a disposizione di una piccola economia agricola che campava attorno a quel bene.
Solo all’inizio del Ventesimo secolo accanto alle attività di sempre, sono apparse primissime forme di accoglienza, naturalmente legata a prodotti del luogo, a iniziare dal pesce del Lambro e dal vinello nostrano.
Rimane, purtroppo, inevasa la domanda essenziale: da dove proviene questo bellissimo nomignolo, Spadétt. Non l’abbiamo scoperto con certezza e non viene riportato da alcun testo sacro, sebbene da cent’anni quel luogo sia più noto in dialetto che con l’autentica denominazione ufficiale.
Premesso che non esistono pesciolini del Lambro che abbiano questa traduzione in vulgata, aggiunto che non si hanno notizie di mulini il cui maglio forgiasse metalli, men che meno lame da taglio; rimane un ultimo dilemma: o vi ha abitato a lungo una ipotetica famiglia Spada oppure trattasi di usanza del tutto femminile risalente a Lucia Mondella ed a sua madre Agnese, le quali, come è noto, usavano trattenere lo chignon con dei veri e propri spadini da maglia, o giù di lì.
La “granite” dello zio Domenico
Per quei due o tre tra di voi che non avessero già letto il ricordo dello zio Domenico, un necrologio che gli dedicai quando venne a mancare, nell’autunno del 2019, chiedo il permesso di pubblicarne qui pochi brani.
Con una notazione, anzi due. Il suo mitico chiosco gelati è sempre stato lì, a pochi passi dal funbiòn e quindi dal Dussèll. Ma c’è di più: lui, in quella cascina ci era nato nel ‘26; sul tavolo da cucina della famiglia Radaelli, ramo Salamén, sì perché suo padre, nonno Ambrogio, esercitava il mestiere di macellaio di maiali.
Avvertenza: il brano andrebbe letto tenendo in sottofondo il rif Barbara Ann dei Beach Boys o in alternativa l’accordo-basso di Satisfaction dei Rolling Stones. Vedete voi.
Poche cose sono dissetanti come una granite fredda (sì, anche al singolare: una granite, due granite). Gustata col cucchiaino, seduti sul parapetto in pietra che sta di fianco al chiosco del Domenico; belvedere esclusivo sul crocevia d’acqua che finisce nel funbiòn. Allora: una granite. Prendere un grosso pane di ghiaccio lungo almeno un metro e raschiarlo con una specie di pialla di metallo che produce sbriciolamento. Attenzione; non a neve, devono essere piccoli grani. Versare il ghiaccio tritato in un bicchiere simil cucina, scegliere a piacere lo sciroppo: menta, limone, orzata, tamarindo. Mischiare bene sciroppo, ghiaccio e alè. Il tutto costa 50 lire (Due centesimi e mezzo di euro). La morte sua, però, è aggiungere una palettata di gelato alla panna. La procedura non cambia ma vuoi mettere la morbidezza del gelato casalingo del Domenico e, dico per dire, lo sciroppo all’amarena? Eccezionale, certo! Sì, ma costa 70 lire (Tre centesimi e mezzo di euro). Ciumbia.
L’architetto Piero Borradori (1899 – 1967)
Ora leggo che fosse persino un Ragazzo del ‘99 e allora i motivi di empatia con quest’uomo diventano mille e più. L’arch. Piero Borradori faceva già parte, per quel nulla che conta, del mio personalissimo Pantheon di villasantesi benemeriti. In compagnia di Lorenzo Daelli, il Grande Sindaco che rimase in carica per ben trentatré anni, fra Ottocento e Novecento e traghettò il nostro paese nel futuro.
Con lui tutta quanta la famiglia Camperio, il maestro Paolo Bonfanti, Rinaldo Tagliabue ed altri personaggi pubblici, volti contemporanei che, giusta questa ragione, sarebbe quanto meno inelegante citare.
Il motivo di tanta ammirazione? Quando al talento si associa la spassionata generosità.
L’arch. Piero Borradori appartiene, professionalmente parlando. a quella schiera di firme che hanno percorso dall’inizio alla fine la stagione creativo/artistica che avvolge tutto il Ventennio fascista, dal Razionalismo classico fino al primo apparire del Modernismo strutturale.
Sue opere importanti appaiono nella Milano monumentale, nelle suggestive costruzioni di Monza centro che si specchiano ancora oggi su Piazza Trento, alludiamo agli inconfondibili palazzi all’angolo con via degli Zavattari e padre Reginaldo Giuliani, quest’ultimo realizzato in collaborazione con l’arch. Bartesaghi.
Poi, notevole, negli anni ’60 la radicale ristrutturazione di Villa Verri e relativa piazza a Biassono.
Ma, tornando a casa, l’arch. Borradori brilla, fra l’altro, per importanti operazioni di edilizia pubblica. A partire, naturalmente, dal Palazzo municipale e da quella che fino a una dozzina di anni fa era la piazza antistante. Sarebbe davvero opportuno soffermarsi su questa realizzazione che dona uno straordinario senso di appartenenza alla nostra comunità, grazie alla sua torre a mattoni vivi, alle straordinarie proporzioni dei volumi, alle eleganti simmetrie delle ali e alla solennità dello scalone d’ingresso. Pietre, linee, luminosità e ambienti che dopo ottantacinque anni non sono state scalfite dal benché minimo logoramento.
Altro intervento di grande portata civile, l’arch. Borradori lo affronta subito dopo la fine della seconda Guerra mondiale, nella sua veste di libero professionista e responsabile dell’ufficio tecnico comunale, incarico che ricoprirà praticamente fino alla fine dei suoi giorni.
Dal 1943 al ’46 Villasanta era stata colpita da una acuta epidemia di tifo, a causa del rinvenimento in acqua potabile, di bacilli provenienti dai pozzi neri. Vi furono diverse vittime, tanto è vero che nel ’49 si procedette ad una capillare vaccinazione di tutta la popolazione per spegnere la diffusione del contagio. Nel frattempo (estate 1946), l’Amministrazione deliberava la costruzione di un impianto di acquedotto pensile e ne affidava studio e realizzazione all’arch. Borradori in collaborazione con il tecnico ing. Pietro Terranini. Nella primavera del 1951 si dichiaravano conclusi i lavori e Villasanta era servita da una rete di acqua potabile efficiente, modernissima e, sembra incredibile, costata anche meno dei preventivi.
Da non scordare, ancora in paese, la sede del Comando dei Carabinieri di via Garibaldi (è ancora lì da vedere con i suoi bei profili massicci, proprio di fronte alla Casa dei popoli), l’ingresso di quello che fu l’ Oratorio maschile di fronte al Comune e la prima bozza di progetto della circonvallazione Edison/Volta che vedrà la luce agli inizi degli anni ’60. E ci fermiamo qui, ma l’elenco sarebbe ancora corposo.
Ebbene, di questo gran coacervo di progetti, studi, realizzazioni, o meglio al conseguente stato dei conti, alla fine degli anni ’50 il sindaco Battista Erba chiese conto all’allora Segretario comunale e solo dopo anni, nel ’66, a poca distanza dalla scomparsa dell’architetto, si perverrà ad una simbolica liquidazione della intera partita.
Abbiamo volutamente lasciato in fondo il motivo vero di questo imprevisto incontro con l’arch. Piero Borradori: il Cinema Lux. Ovvero il luogo dei nostri sogni, il Salone della bellezza in cui tutto poteva accadere e a volte è accaduto.
Di quelle ore magiche, di quelle emozioni giovanili narreremo la prossima settimana.
Buongiorno Franco ,
è sempre interessante e piacevole leggere della storia del nostro paese e delle sue cascine con accenni di vita vissuta e dei mestieri artigianali che in esse si svolgevano.
Una precisazione riguardo l’albero genealogico della mia famiglia per evitare errori e malintesi.
Rossi Angelo (1960-1913) con la moglie Asnaghi Virginia (1965-1952) i miei bisnonni lavandai.
Rossi Lorenzo Anacleto (1890-1964) mio nonno, con i fratelli Annibale, Antonio e le sorelle.
Rossi Luigi (1924-2011) mio papà, con il fratello Mario e le sorelle.
Un caro saluto
Ruggero Rossi