le mani sulla roccia

Nelle Ande Peruviane

Il mio più grande desiderio, come del resto per tutti gli alpinisti, era di partecipare a una spedizione extraeuropea. Ignorato completamente nella scelta degli uomini per il K2, ora si presentava l’occasione di partecipare alla seconda spedizione italiana al Karakorum e precisamente al Gasherbrum IV.

Il grande sogno di un alpinista è di completare la sua attività sulle montagne dell’Himalaya, ed io questo lo sognavo anche di notte, ma sentivo anche che non avrei avuto fortuna.

Infatti presto mi convinco: anche in questa scelta ero stato completamente dimenticato. Mi ritenni umiliato, tanto più che quando mi informai del perché della non inclusione nel gruppo dei candidati ebbi strane risposte: che io non ero un occidentalista… Strano, al Bianco ci vado tutti gli anni e mi sembra di aver fatto anche qualche ascensione: c’è chi disse che io non ho mai voluto fare lunghe camminate … Strano anche questo, perché poi non si sono portati i cento chilometristi? Venni a sapere anche che durante la scelta, quando affiorò il mio nome, uno della commissione disse che io non ero bello a sufficienza per entrare nel Pakistan… per rappresentare l’Italia all’estero. Che io non sia una bellezza è un fatto, ma che i componenti di una spedizione alpinistica debbano essere degli adoni è una cosa ridicola … Perché non si sono portati qualche divo di Cinecittà?

Una tenue speranza viene a consolarmi: una spedizione privata, organizzata da Gian Carlo Frigieri si appresta a lasciare l’Italia per le Ande del Sud Perù. Doveva partecipare anche Carlo Mauri a questa spedizione, ma, essendo stato scelto per il Gasherbrum IV, ha pensato gentilmente a me, cedendomi il suo posto, naturalmente col consenso di Frigieri, capo spedizione.

Spedizione 1958 – carta schematica con le cime conquistate

Entrai così a far parte di un gruppo di sette uomini diretti alle Ande. Con nessuno di essi avevo mai avuto l’occasione di arrampicare e, nonostante il grande entusiasmo di Frigieri, non ero convinto di essere bene accolto.

Sempre aiutato da Frigieri, instancabile nella parte di organizzatore, riuscii ad ottenere, da amici e conoscenti, mezzo milione. Con questo mi sentii in diritto di essere libero di agire sul posto, senza prendere ordini da nessuno: una cosa molto importante nella situazione in cui mi stavo per trovare.

Ora la partenza era sicura: ci sono i biglietti di imbarco e il giorno è fissato.

Dimenticai completamente la delusione del Gascherbrum IV, e, dopo aver conosciuto a fondo coloro che sarebbero stati miei compagni, mi convinsi che la spedizione sarebbe stata molto interessante e molto divertente.

Il venti aprile 1958 lasciamo l’Italia. Ci imbarchiamo a Genova a bordo della motonave “Marco Polo” diretti a Callao, porto di Lima, in Perù: siamo in sette, con sette o otto quintali materiale.

Dobbiamo svolgere il seguente programma: raggiungere Lima, capitale del Perù, dopo 25 giorni di navigazione, portarci ad Arequipa e quindi a Puno sul Lago Titicaca, raggiungere la Cordigliera di Apolobamba al confine con la Bolivia e qui scalare il maggior numero possibile di cime inviolate.

Il primo è Giancarlo Frigieri, capo spedizione, da noi chiamato Carlino, instancabile organizzatore: tutto il merito di questa avventura è suo, solo lui poteva accumulare dal nulla, il materiale, i viveri e i soldi necessari per portarci sulla Cordigliera delle Ande. Gli altri sono: Pietro ·Magni, il più giovane dei componenti e valente operatore cinematografico, il dottor Umberto Mellano, medico della spedizione, dimostratosi anche valente alpinista, Romano Merendi, alpinista, Gianluigi Sterna, alpinista, Camillo Zamboni pure alpinista e il sottoscritto.

Tempo ne abbiamo a disposizione fin che se ne vuole. Ora stiamo navigando.

È mio dovere presentare i componenti la spedizione.

1958 Perù – I componenti della spedizione in compagnia
del cugino del presidente del Perù

Passando a Sud delle isole Barbados nelle Piccole Antille, dopo una giornata di navigazione nel Mar dei Caraibi, eccoci a la Guaira, in Venezuela: è il primo porto sudamericano che vediamo e ci delude un po’: è piccolo, chiuso alle spalle da grandi colline. Grande però è l’accoglienza all’arrivo della nave, ci sono moltissimi italiani.

Nel Golfo del Darien sbarchiamo a Cartagena in Colombia: questa cittadina posta in una vasta laguna e difesa da una numerosa serie di isole coperte di fitte vegetazioni è chiamata la “leonessa colombiana”. Si legge nella storia che fu presa d’assalto, fu assediata ed espugnata numerose volte dai corsari della Tortue.

Visitando la fortezza di San Philipe che sta sopra ad una collina a dominare la città, mi sembra di vedere dal vero i racconti di Emilio Salgari.

Lasciata Cartagena, la nave entra qualche giorno più tardi nel Canale di Panama.

Ora navighiamo nell’Oceano Pacifico verso Sud, seguendo la costa colombiana: è questo il grande Oceano e si presenta completamente diverso dall’Atlantico. Direte: ma è mare anche questo, è formato dalla stessa acqua. Eppure è diverso: durante il periodo di navigazione sia nell’andata che nel ritorno notai la differenza dei mari. Il Mediterraneo è azzurro, l’Atlantico è bleu, il Mar dei Caraibi è verde e pittoreschi sono i suoi tramonti di fuoco, l’Oceano Pacifico è grigio, e l’ho sempre visto di questo colore con quella sua alta e monotona onda che con meticolosa regolarità giunge a spazzare le coste.

Navighiamo sempre verso Sud. Lima si avvicina sempre più. L’ultimo giorno di navigazione è stato caratterizzato da una lunga, interminabile colonna di cormorani che volavano in formazione rasentando l’acqua, un lungo nastro nero formato da milioni di uccelli, e la cosa più curiosa è che la nave deve tagliare quel nastro: a pochi metri si aprono le file a prua per unirsi ancora a poppa. Sono gli uccelli del guano, uccelli che col loro sterco offrono una vera ricchezza al Perù.

Alle 13 del 15 maggio, entriamo nel porto di Callao. È una giornata di festa per noi, ci sembra di essere arrivati in un porto italiano, sentiamo parlare la nostra lingua dalla banchina: c’è una numerosa folla che ci saluta, sono tutti italiani che ci ricevono con le lacrime agli occhi, ci abbracciano, ci chiedono dell’Italia.

Salgono a bordo anche fotografi, reporter, e autorità italo-peruviane: deve essere un grosso avvenimento.

Al pomeriggio dello stesso giorno siamo ricevuti dal nostro ambasciatore a casa sua, e il giorno seguente all’ambasciata italiana, diventata la nostra base a Lima.

Alloggiamo al circolo sportivo italiano, e qui riceviamo sempre le calorose visite di numerosi connazionali emigrati. I quindici giorni di soggiorno a Lima sono caratterizzati da numerosi ricevimenti. I 5 o 6 quotidiani della città seguono le fasi del nostro soggiorno con molto interesse. Al palazzo del governo veniamo ricevuti dal Presidente della Repubblica, Manuel Prado. Il 30 maggio, con tutto il materiale disponibile, ci imbarchiamo a bordo di un idrovolante della aviazione militare peruviana, alla volta di Arequipa.

Marcia di avvicinamento al campo base

Sono due ore e mezza di volo su un percorso di 1.000 chilometri sorvolando, verso Sud, un interminabile deserto.

Arequipa è posta a 2.450 metri sul livello del mare. Ora siamo alle porte dell’immenso altipiano che si estende a Sud del Perù e che occupa tutta la parte settentrionale della Bolivia: siamo alle porte della “Puna” sconfinata che porta alle grandi catene di montagne.

Sopra Arequipa, città di 270.000 abitanti, si erge isolato e bonario il vulcano Misti alto 6.000 metri, ma la zona, nonostante la pacifica forma del vulcano, è molto tellurica, e lungo i muri delle abitazioni ci sono evidenti segni dei numerosi terremoti.

All’indomani, a bordo di un camion, lasciamo la città per internarci verso il lago Titicaca. Sono 280  chilometri di percorso fra la desolazione: fra montagne brulle e pianure coperte di una dura erba giallastra valichiamo un passo a 4.800 metri. Siamo all’altezza del Monte Bianco. Ci fermiamo sul passo per una breve sosta. Personalmente mi sembra di avvertire un leggero capogiro, ma gli amici mi dicono che anche loro soffrono di una lieve indisposizione. Evidentemente è l’altezza raggiunta in un sol balzo. Poco dopo passano degli indios della zona, accompagnati da un gruppo di curiosi e superbi quadrupedi: sono lama, cioè i cammelli delle Ande. Facciamo numerose fotografie. È la prima volta che ci imbattiamo in questi animali, poi ne avremo fin sopra ai capelli.

Riprendiamo la nostra marcia e, finalmente, scendiamo sulle sponde settentrionali del Lago Titicaca. A sera siamo a Puno, cittadina posta a 3.880 metri di altezza, sulle rive del grande lago, regno degli indios dell’altipiano.

Il taglio della barba

Dopo due giorni a bordo di un altro camion, sempre col nostro materiale, andiamo verso la Cordigliera di Apolobamba a Nord del Titicaca, al confine con la Bolivia. Sono quasi trecento chilometri di strada polverosa che passa fra gole selvagge, montagne brulle e sempre immense gialle praterie, il paesaggio è rotto a volte da qualche villaggio di piccoli trulli di fango, ma il grande contrasto del luogo è dato dalle bande musicali: è sorprendente vederle, a oltre 4.000 metri di altezza, lungo queste polverose strade, viaggiare a passo di marcia suonando musiche strane. Sono indios male in arnese, vestiti di cenci, a piedi nudi, la cui pelle non ha ancora assaporato il piacere di un bagno, che brandiscono strumenti musicali così lucidi da fare invidia a un direttore delle nostre orchestre: suonano solo alla domenica pomeriggio e percorrono anche trenta-quaranta chilometri soffiando pomposamente nei loro attrezzi.

Al termine della giornata e di una aspra salita, eccoci sbucare su un altro grande altipiano: siamo a 4.850 metri sul livello del mare. Poco dopo raggiungiamo l’abitato di San Antonio di Poto: è un villaggio di una cinquantina di indios. Ci sorprende il trovare una vera palazzina, un fabbricato moderno. È una zona aurifera quella che abbiamo raggiunto e la palazzina è l’abitazione dell’ingegnere della miniera e dei tecnici. Il proprietario è cugino del Presidente della Repubblica e, saputo del nostro arrivo, ci concede gentilmente il soggiorno per tutti i giorni che contiamo di restare sul posto, prima di portarci sotto le nostre montagne.

Dal luogo da noi raggiunto osserviamo, poco lontano, enormi montagne coperte di neve. Un altro contrasto: dalla “Puna” erbosa ecco alzarsi, senza ghiaioni e morene, vette altissime coi loro eterni ghiacciai.

Ci fermiamo per qualche giorno alla palazzina: il tempo necessario per reclutare i portatori, una buona dose di muli e lama, e scegliere anche il luogo per piazzare il campo base.

Osservando le carte geografiche della zona, notiamo che le due cime che ci stanno davanti hanno un nome: la prima Nevado Ananea, la seconda Nevado Callyon, poi, più lontano formando un altro gruppo, sono molto visibili le bellissime cime dei Nevadi Palomani, del Salluyo e del Chupiodjo, e di numerose altre senza alcun nome.

Sullo sfondo il Nevado Ananea (m. 6020)

Ora dobbiamo cercare di piazzare un campo base in una posizione comoda: trasportiamo ancora il materiale con una camionetta nella località desertica chiamata Pampablanca e qui restiamo soli con una decina di muli, due portatori mezzo ubriachi per la coca masticata e tutto il nostro materiale.

Da questo luogo, nella stessa giornata, comincia la nostra tragicomica e avventurosa esplorazione verso le montagne.

Parte prima Zamboni con un cavallo. Deve cercare il luogo adatto per piazzare le tende, poi io, Sterna, due indios e dieci muli carichi di una parte di materiale. Seguiamo le tracce del compagno: a sera, se tutto va bene, raggiungeremo il luogo.

Ci sono degli imprevisti, molti imprevisti, e qui succede che siamo vittime di una strana avventura, Sterna ed io.

Da mezz’ora guidiamo la carovana di muli: strani animali questi, sembra che debbano cedere sotto il peso del carico da un momento all’altro, eppure gli indios ci hanno assicurato che sono molto forti: io a dire la verità mi sento molto preoccupato.

Ed ecco il primo inconveniente: un mulo cade sotto il peso del carico e si rovescia. Io e Sterna ci precipitiamo sulla bestia per aiutarla a rialzarsi: non ci rimane che scaricarla e ricaricarla di nuovo. Durante questa operazione un altro mulo segue la stessa sorte: altro laborioso lavoro, ma non è finita, ecco un altro che cade, poi un altro ancora, è una vera dannazione, perdiamo più di due ore e presto ci convinciamo che non c’è proprio niente da fare. Osservando la scena, noto che gli unici animali restati in piedi sono tre, il resto della comitiva ha rovesciato tutti i barili disseminandoli da ogni parte, scappando chi a destra e chi a sinistra: sui due portatori indios non possiamo fare affidamento, guardano come se la cosa non li riguardasse.

Dato che tre muli non hanno ancora rovesciato il carico, propongo a Sterna una soluzione: io andrò avanti seguendo le tracce di Zamboni coi tre animali ancora carichi, mentre lui, “aiutato” dai due indios, proseguirà più tardi, quando gli animali si saranno riaddomesticati.

E’ arrivata la posta

Sterna, per il bene del carico rimasto sui tre muli, accetta. Quindi io riprendo la mia marcia con in spalla uno zainetto e la piccozza nelle mani a mo’ di frusta.

Presto la strana comitiva lasciata alle spalle diventa un puntino nero fra il giallo della Puna. Ora la mia marcia si svolge lungo la riva destra di un bellissimo laghetto azzurro: devo percorrere un paio di chilometri sulla sua sponda. Dapprima passo fra numerosi gruppi di lama che stanno a guardare il nostro passaggio indifferenti con quel loro sguardo stupido, ma superbo, poi devo addentrarmi in una serie di canali d’acqua. I muli proseguono indifferenti guadando questi rigagnoli, mentre io cerco sempre il punto adatto per saltare da una parte all’altra. Nell’attraversare un canale più largo del solito, devo levare le scarpe e le calze, frattanto i muli proseguono senza fermarsi, ignorando completamente la mia voce. Mi avventuro nell’acqua gelata, ma, come metto i piedi sull’altra riva, un centinaio di spine sottilissime mi si conficcano sotto i piedi. Devo sedermi subito sulla sabbia e iniziare un paziente lavoro di estrazione, una vera tortura. Mentre svolgo questo lavoro, i muli cominciano, con mio grande sgomento, a dividersi: uno va diritto, un altro si arrampica su per un costone e un terzo si dirige verso destra.

Levate completamente le spine dai piedi, comincio a rincorrere il primo mulo, lo prendo, lo trascino sulla riva del lago e piantata la piccozza nella terra, lego la bestia, inseguo il secondo, più tardi lo unisco al primo, infine, per catturare il terzo devo fare delle vere acrobazie e finalmente è preso, lo porto dove ci sono gli altri due, ma questi sono sdraiati beatamente con tutto il carico rovesciato. Confesso che montai su tutte le furie: ora la pazienza non esiste più, tutta la mia ira si sfoga su quelle bestie a colpi di manico di piccozza.

Andrea di pessimo umore al campo base di Laguna Callyon

Meno male che nessuna zitella inglese si aggirava nella zona perché altrimenti mi avrebbero condannato all’ergastolo. Finalmente, dopo un’ora di faticoso lavoro, i tre muli sono pronti per proseguire la marcia.

Sento un leggero mal di testa, e sono anche molto sudato, respiro a fatica, forse lo sforzo fatto a questa altezza senza alcuna acclimatazione comincia a fare il suo effetto.

Riprendo la marcia: ancora un’ora di sforzi e di corse per tenere vicino i muli, poi mi sento ancora più debole e sempre più stanco. Devo andare avanti, devo raggiungere Zamboni: penso anche alle condizioni in cui si può trovare Sterna coll’apporto dei due indios. La marcia ora si svolge su un terreno roccioso, si superano anche delle rupi a strapiombo, però bisogna aggirarle per trovare il passaggio obbligato, ma in uno di questi passaggi sopra un salto di una trentina di metri, l’ultimo mulo della colonna si rovescia rimanendo miracolosamente in bilico sullo strapiombo. Mi precipito subito sull’animale, lo libero dal carico e la bestia con uno sforzo si alza scappando in avanti. Ora, sentendomi molto debole e non avendo le necessarie forze per caricare l’animale col materiale rovesciato decido di abbandonare tutto sul posto, tanto il mulo è libero e può pascolare liberamente. Continuo ad andare avanti con solo due animali, mi sento sempre più sfinito, mai mi è capitato di ritrovarmi in una situazione del genere, ora non ho nemmeno la voglia di arrabbiarmi.

Ad un certo punto un altro mulo si rovescia a gambe per aria, lo libero dal carico che lo tiene inchiodato a terra, e anche qui abbandono il materiale lasciando l’animale in libertà. Guardo sempre avanti per vedere se almeno si facesse vivo Zamboni, ma niente, nessuna traccia di presenza, ora comincia ad avvicinarsi la sera. Ecco il guaio, so che nella zona ci sono numerosi puma che si aggirano durante la notte in cerca di cibo, l’idea di diventare un buon pasto per queste belve mi fa passare per un momento la stanchezza.

Laguna Callyon in partenza per una esplorazione

Riprendo ancora con grinta ad andare avanti come se il breve riposo mi avesse risollevato, tengo sempre per la briglia l’ultimo mulo, non posso permettermi di perderlo, sulla sua groppa c’è un carico importante almeno per il momento, cioè una tenda e degli indumenti di lana con una parte di viveri strettamente necessari per qualche giornata.

Devo attraversare un torrente scarso d’acqua, ma ricco di fango, stavolta non mi fermo a levarmi le scarpe, entro deciso trascinando il mulo superstite. Uscito dall’altra parte del torrente sento, dalla corda tesa, che l’animale non mi segue, guardo alle spalle e vedo il mulo che sta sprofondando lentamente nel fango come se fosse inghiottito dalle sabbie mobili, mi precipito su di lui e lo libero dall’ultimo carico, poi cerco di estrarlo dalla tragica posizione, ma non ci riesco, l’animale, impegnato nello sforzo, non fa che allargare la buca. Non so se è stato l’istinto o cos’altro, rincorsi uno dei due muli abbandonati che mi seguivano a distanza, lo catturai e lo portai sul posto, con un pezzo di corda legai l’animale pericolante facendolo trainare dal mulo catturato un po’ a legnate e un po’ a spinte riuscii a tirare a secco la bestia sprofondata nel fango.

Ora anche l’ultimo carico è perso. Di Zamboni nemmeno l’ombra, nella situazione in cui mi trovo, mi siedo sul barile di materiale con la testa fra le mani sentendo una grande voglia di piangere; è ridicolo eppure mi metto a piangere come se qualche cosa di molto grave fosse successo.

Più tardi, caricata sulle spalle la tenda, riprendo la marcia, con le ultime energie. Durante la giornata non avevo mangiato ed ora non mi rimane nulla. Ma la fame non si fa fortunatamente sentire. La cosa più desiderata è di stendersi sull’erba, così, beatamente, ma l’idea dei puma non mi permette di realizzarla. Inoltre bisogna trovare a tutti i costi Zamboni perché anche lui non è equipaggiato e per passare la notte gli è indispensabile la tenda che porto sulle spalle. Ma la più grande beffa mi è data dai muli, guardando alle mie spalle li vedo a pochi metri, mi seguono tranquilli in colonna, molto ordinati, come se uno li guidasse, nessuno scappa a destra o a sinistra. Comincia a far buio quando su un’altura sento una voce, è Zamboni, e quando gli si para davanti agli occhi la scena della tragicomica carovana scoppia in una clamorosa risata.

Campo base di Laguna Callyon (m. 4870)
sullo sfondo il Nevaio Callyon

La tendina è presto rizzata su uno spiazzo molto comodo: poco dopo, senza mangiare e senza indumenti ci sdraiamo al suo riparo. È la prima notte che passo sul luogo del campo base, una notte gelida ed interminabile. Subito assaporiamo l’insopportabile clima notturno della “Puna”, uno dei netti contrasti nel paese del contrasto, sole cocente di giorno e grandi brinate di notte.

Al mattino, quando usciamo dalla tendina, ci precipitiamo a prendere i muli rimasti nei pressi del campo e con loro andiamo alla ricerca del materiale seminato lungo la strada, o, meglio, il percorso da noi fatto perché la strada non esiste. Ora sono io che rido con Zamboni, e rido a crepapelle e di consolazione quando troviamo Sterna seduto, stretto fra i due indios, sul luogo dove ha passato la notte, l’amico fra i due che, con la più pacifica indifferenza, masticano le foglie di coca, deve aver masticato fiele per tutta la notte.

Nel pomeriggio dello stesso giorno possiamo finalmente piazzare le tende e consumare un’abbondante colazione.

Il campo base: c’è una grande tenda che funge da magazzino e da soggiorno, ci sono tre tende gialle a due posti del tipo Himalaya, e c’è anche una tendina a due posti verde del tipo Pamir, questa serve tutta a me. Siamo in sette e nessuno dei miei amici vuole dormire solo, la zona è abitata, come ho detto, da puma e sono animali feroci, sono i leoni delle Ande, sono anche molto temuti dagli indios, ma io, temendo il russare di qualche compagno, affitto tutta per me la tendina verde. Di solito alla sera si andava a dormire verso le otto e la notte, fino alle sei o alle sette del mattino, è molto lunga a passare perciò ad un essere vivente, durante queste ore, è logico che venga la necessità di compiere uno dei più innocenti bisogni, a me capitava sempre verso le tre del mattino, allora, tutto avvolto nei miei indumenti di lana, uscivo dalla tendina esaminando anche il cielo sempre stellato.

Laguna Callyon

Una notte, nel guardare nel centro del campo notai una forma scura raggomitolata: «Sarà un Indio», pensai, «chissà perché dorme lì nel mezzo del campo!». Per il momento mi venne la tentazione di andare a scuoterlo, ma poi pensai che essendo di una razza così indolente avrebbe magari fatto fatica a spostarsi, lo lasciai lì e stavo andandomene quando vidi la forma sciogliersi in un baleno e in due o tre balzi fuggire verso il ghiacciaio. Non so se diventai bianco, verde o giallo: ricordo solo che mi catapultai nella tendina col cuore che mi saltava fuori dalla cassa toracica. Era un puma, un puma vero, meno grosso di un leone, ma molto più agile. Al mattino trovammo le sue impronte fino ai bordi della seraccata di ghiaccio che sta sopra il campo. Meno male che non ero andato a scuoterlo…

Il campo base comincia ad abitarsi: la seconda notte eravamo in tre essendo giunto Sterna, poi arrivano anche Mellano e Merendi con tutto il resto del materiale rimasto a Pampablanca. Frigieri e Magni si sono fermati per qualche giorno a Puno per scopi cinematografici e anche perché Magni è costretto a letto con una forma di bronchite.

Ora che il campo base è sorto con quasi tutti i comfort, ora che abbiamo tutti gli attrezzi necessari per le scalate e che ci siamo rifatti con qualche giorno di riposo e con abbondanti mangiate, è logico che sentiamo il desiderio di muoverci. Siamo circondati da montagne inviolate e occorre esplorare, vedere, trovare i punti di accesso alle cime.

Una sommaria esplorazione ci dice che dobbiamo piantare un campo leggero ad una certa altezza per scalare il Nevado Ananea. Il piccolo campo, formato da due tende del tipo Pamir, viene piantato su una landa morenica a 5.400 metri circa: pianto io il campo con l’aiuto di Sterna e di Mellano, più tardi sopraggiungono Zamboni e Merendi.

All’indomani comincia la marcia verso la vetta: dico marcia e così è. Il Nevado Ananea è una montagna molto facile da scalare, e noi abbiamo bisogno appunto di questo per completare la nostra acclimatazione. Ben presto scopriamo che occorre un eccezionale sforzo fisico: infatti arriviamo sulla cima che affondiamo fino al ginocchio. È la prima conquista, e la vetta è di 6.020 metri. Ma quello che maggiormente mi colpisce è la distesa erbosa della “Puna”, l’immenso altipiano giallo ricco di minuscoli laghetti azzurri incastrati nelle conche come se fossero zaffiri chiusi in un gioiello d’oro, ed infine l’enorme catena di montagne coi suoi vasti ghiacciai e coi numerosi platò di neve farinosa e candida, tutta la visione è resa interessante dalla marcata serie di contrasti di colore.

Nel pomeriggio il campo avanzato è nuovamente raggiunto, lo spiantiamo e con una marcia accelerata raggiungiamo anche il campo base.

Una bella sorpresa ci attende, durante la giornata, mentre noi stavamo dando la scalata al Nevado Ananea, Carlino Frigieri e Pietro Magni, completamente ristabilito, sono arrivati ad arricchire il gruppo.

Così tutti e sette qualche giorno più tardi ci apprestiamo a scalare la seconda montagna, più difficile e molto più bella, il Nevado Callyon. Occorre anche in questo caso piantare un altro campo leggero sulle pendici orientali della montagna, per fare questo bisogna fare un lungo giro, aggirare completamente il colosso dopo aver valicato un colle. Questo percorso viene fatto in una sola giornata, portando tutto il materiale sulle spalle. A sera, su una lingua morenica sporgente fra due ghiacciai, piantiamo le nostre tendine: siamo a quota 5.380.

campo leggero a Laguna Paradiso (m. 5250)

Prima di ritirarci nelle nostre tende, con Zamboni e Merendi ci rechiamo sul vasto ghiacciaio per studiare la via di accesso alla montagna, osserviamo che occorre percorrere un lungo platò di· neve per raggiungere la cresta Sud Est, la più fattibile.

Alle sei e trenta del giorno seguente lasciamo il campo leggero, custodito da Frigieri, e iniziamo la lunga marcia verso il Callyon: è una faticosa sgroppata su neve farinosa, raggiungere la cresta. Poi, legati in tre cordate, io con Sterna, seguiti da quella formata da Zamboni-Mellano e per ultimo da quella Merendi Magni, affrontiamo la parete di ghiaccio. Ora l’andare avanti su una parete che si fa più ripida diventa meno faticoso, la neve è gelata e la parete offre anche dei buoni punti di appoggio. Una novità per noi è il passare da un crepaccio all’altro superando strani ponti di ghiaccio, non sono come i nostri che si incontrano sulle Alpi, qui il ponte e saldato al labbro del crepaccio con enormi candele o colate di ghiaccio. Questo fenomeno è dato dall’eccessivo calore che scioglie di giorno la neve, subito seguito dalla bassa temperatura notturna. Si formano così i “penitentes” o più semplicemente pinnacoli, e noi su di essi proviamo un’altra forma di scalata.

Il lavoro più complicato viene fatto proprio sotto la cima, appunto per uscire dalla parete e superare la grande cornice, presto questo ostacolo è demolito e la cima è raggiunta. Il Nevado Callyon coi suoi 6.080 metri è conquistato e le nostre bandierine, quelle dell’Italia e del Perù, garriscono al vento.

Rimaniamo poco sulla cima; e così avverrà sempre. Rimaniamo il tempo necessario per i rilievi geografici. Questo lavoro impegna in particolare Merendi che, con i suoi complicati attrezzi, otterrà più tardi una magnifica e completa cartina di tutta la Cordigliera di Apolobamba.

Prima che si faccia buio il campo leggero custodito da Frigieri è raggiunto. All’indomani occorre spiantarlo per portarsi nuovamente al campo base, ma durante la scalata al Callyon notai verso Est una montagna non tanto alta ma di bell’ aspetto. Così, alla sera, dico agli amici di lasciare una tenda e dei viveri perché è mia intenzione fermarmi un’altra giornata. Con me rimangono Sterna e Frigieri.

Laguna Paradiso m. 5250

Di buon’ora al mattino tutti e tre proseguiamo pestando a turno il grande plateau nevoso che divide la montagna dal campo leggero, più tardi siamo impegnati sui pendii nevosi sottostanti la cima e molto presto, prima del previsto, la vetta è raggiunta. È un Nevado di 5.640 metri di altezza e, non avendo alcun nome, lo battezziamo Nevado Angelo Vanelli, ricordando così un amico scomparso sul Monte Rosa.

Nel pomeriggio la nostra tendina è raggiunta: la spiantiamo e dopo una estenuante marcia ci riuniamo, prima che faccia buio, al gruppo che ci aspetta al campo base.

Ora l’attività in questa zona è finita: per scalare altre montagne occorre spiantare il campo base e ripiantarlo una ventina di chilometri più a Est, verso la Bolivia. Questo lavoro lo faremo più tardi, per il momento è necessario concederci un breve periodo di riposo: occorre, per tutto e per tutti, fare pulizia e riordinare il materiale.

Durante queste giornate passavo le ore con una carabina calibro 21 a palla: l’avevo portata per la difesa dai puma, ma io l’usavo molto volentieri per cacciare nelle vicine lagune, ricche di uccelli acquatici.

I miei amici non sapevano che io fossi un abile tiratore, anzi ne dubitavano. Ricordo che quando per la prima volta mi recai ad una battuta accompagnato da Mellano, nell’uscire dalla mia tenda col fucile fra le mani gridai: «Anatre, tremate!!!».

La parete sud del Nevado Callyon

Tutti si misero a ridere e Zamboni, per sfottermi disse:

«Verrò fra poco ad aiutarti a trasportare il carico di anatre col cavallo».

Presi ugualmente la frase come un augurio e poco dopo eccoci sulla laguna. Ecco un uccello che guazza beatamente sull’acqua, mi avvicino piano piano strisciando per terra, a trenta metri di distanza prendo la mira, premo il grilletto, un colpo ed ecco il palmipede è fulminato. Mellano mi guarda stupito e, pensando ad un facile bersaglio, tira anche lui un colpo di carabina, ma l’anatra si alza tranquilla e se ne va. Mi incarico io di preparare carne a sufficienza per un lauto banchetto: cinque tiri bene assestati e cinque palmipedi cadono fulminati. Confesso che io stesso fui molto sorpreso della mia abilità di cacciatore, ma ammetto di essere stato avvantaggiato dalle stesse anatre ignare del pericolo. Non abituate ad essere cacciate, sono di una ingenuità senza pari, non fuggivano, anzi quando una di esse cadeva fulminata sul laghetto e si dibatteva nell’ultimo respiro, le altre si facevano intorno come se fossero stupite, così da essere mie facili prede. Ad un certo punto il dottore mi annuncia che andrà al campo a prendere il cavallo per trasportare la selvaggina. Ed è proprio Zamboni che si fa vivo col cavallo: ha mantenuto la sua promessa.

All’indomani il campo è in subbuglio: si spiantano tutte le tende e il luogo è invaso da muli e lama coi relativi portatori. Presto tutto il materiale viene diviso in colli da venti chili e caricato sul dorso degli animali: poco dopo inizia il nostro calvario, la marcia di trasferimento verso l’altra catena di montagne. Non abbiamo fatto mezzo chilometro che un lama, montando su tutte le furie, si libera del carico e con due tremendi calci fa volare la serie multicolore di scodelle da una parte e dall’altra, meno male che sono di materiale plastico.

Abbiamo cominciato il viaggio bene, e così è per tutta la giornata. Superiamo un colle di 5.400 metri e scendiamo in una vallata molto ampia, che ci conduce ad un luogo sui 5.000 metri.

È una marcia sfibrante, se fossimo almeno come gli indios loro, tutto quello che capita, lo prendono con molta filosofia, stanno a guardare, poi col tempo tutto si accomoda: beati loro! Ma per noi c’è da impazzire.

Quando al mattino abbiamo diviso i colli, nessuno degli indios vuol saperne di portare un carico sulle spalle: dicono che ci sono i lama e loro sono venuti soltanto per guidare le bestie, però noto che hanno uno strano fagotto sulle spalle, forse sarà la loro dote e, come le donne che si tengono indosso tutti i vestiti, così gli uomini forse li portano in spalla come capita a noi quando viaggiamo usando la valigia. Più tardi, in una sosta, noto che i portatori, nel bere, non si sdraiano come al solito per terra, ma si portano l’acqua alla bocca con un recipiente: qualche cosa da noi hanno imparato, almeno a bere senza fare fatica! Mi avvicino a uno di loro e vedo che il recipiente che ha fra le mani è una scatola di carne ormai vuota. Guardai anche nel suo grosso pacco e con stupore vidi che c’erano tutti i rifiuti del campo: lattine, scatole di cartone e perfino la carta multicolore che serve per avvolgere le caramelle. Tutto quello che noi gettavamo nella buca delle immondizie era sulle spalle degli indios.

Quelli che si sono impossessati di una piccola latta se la tengono gelosamente custodita in una tasca: è il loro piatto o la loro scodella.

Il ghiacciaio che porta al Colle della Sega

Finalmente nell’ora del crepuscolo raggiungiamo una radura a qualche chilometro dalla catena di montagne ed essendo il luogo tranquillo e scoperto, decidiamo di accamparci. Sulle sponde di un magnifico laghetto a 4.900 metri di altezza sul livello del mare sorge il nostro secondo campo base.

Guardando la poco chiara carta geografica, scopriamo che siamo alla laguna Chorniacota: ci sono tre grosse montagne dai rispettivi nomi di Palomani, di Salluyo e di Chupiorjo, poi tutto è senza nome, montagne, valli e laghetti.

Fino ad ora le giornate sono state bellissime, il cielo sempre azzurro e il sole sempre a picco, ma la notte sempre fredda.

Se durante la giornata la temperatura raggiunge i trenta gradi sopra lo zero, la notte il termometro si abbassa di circa venti gradi sotto. Durante la giornata è quasi impossibile rimanere nella tenda per il gran calore, mentre durante la notte, per il forte gelo, oltre alla spessa coltre di brina che si forma all’esterno della tenda, una leggera patina si forma anche nell’interno ma il nostro perfetto equipaggiamento ci permette sempre di dormire con tutta tranquillità. Quando ci alziamo al mattino troviamo tutti i laghetti completamente gelati, ma verso mezzogiorno le anatre possono riprendere il loro guazzo, e qualche volta ci proviamo anche noi, nudi, per una sommaria pulizia, con grande disgusto e scandalo da parte degli indios.

Siamo nella stagione invernale, cioè l’inverno dell’altipiano, ed è in questo periodo che la stagione è buona per scalare montagne. I forti sbalzi di temperatura forniscono una serie interminabile di giornate completamente azzurre. La buona stagione dura da maggio fino a metà luglio, poi la temperatura si fa più mite durante la notte e meno calda durante la giornata e, col sopraggiungere delle grandi umidità dal vicino bacino dell’Amazzonia, si scatena sull’altipiano il lungo periodo di brutto tempo.

È il 24 giugno e abbiamo ancora tempo prima che sopraggiunga la serie di giornate cattive.

Il primo giorno passato al nuovo campo è dedicato a una sommaria esplorazione dei dintorni. Raggiunte le sponde di un bellissimo laghetto, lo costeggiamo per un paio di chilometri, esplorando anche le valli adiacenti. Di fronte a noi la prima montagna che si vede, che è anche molto bella e interessante, è senza nome: potrebbe essere la prima cima presa d’assalto. Secondo la logica è necessario piantare un campo leggero sotto di essa questo potrà poi servire alla scalata di altre montagne vicine.

Entriamo in una orrida valle, stretta da precipiti pareti di morena e con gioia notiamo che al termine deve esistere un pianoro, servirà al nostro campo leggero.

Andrea in vetta al Nevado Callyon (m. 6020)

All’indomani con Zamboni, Sterna, Merendi ed un portatore, partiamo con un grosso carico sulle spalle per raggiungere il luogo scelto: costeggiato il lago, risaliamo tutta la valle e sbuchiamo su un grande spianato alla base di un vasto ghiacciaio, c’è anche un magnifico lago lungo quasi un chilometro e della medesima larghezza. Il nostro piccolo accampamento lo piantiamo su una landa morenica, posta fra le sponde del laghetto, e un vastissimo ghiacciaio. Magnifica posizione: siamo nel cuore della catena di montagne che ci accingiamo a scalare. Il posto viene da noi chiamato “Laguna Paradiso”. Nel pomeriggio da un’altura scopriamo altri minuscoli laghetti, tutti incastrati in profonde gole moreniche.

Il nuovo campo è a 5.260 metri sul livello del mare, e qui, se tutto va bene, rimarremo una decina di giornate.

Prima che calino le tenebre, Zamboni e il portatore si dirigono al campo base, per risalire all’indomani con un altro carico di viveri ed un’altra tenda, aiutati da Frigieri, Magni e Mellano, altri viveri poi verranno portati a turno dai due portatori.

Così passerà la prima notte al campo di Laguna Paradiso in compagnia di Sterna e Merendi. Facciamo anche un breve programma, decidiamo al mattino di prendere d’assalto la montagna che sta proprio sopra di noi.

Lasciamo le tende molto presto, fissiamo un cordino su un tratto di parete che ostacola l’entrata sul ghiacciaio e lo lasciamo per altre occasioni, quindi attacchiamo il ghiacciaio. È bello andare avanti così su neve solida, anche se la parete che stiamo scalando si fa sempre più ripida. Verso le undici percorriamo l’ultima crestina che ci porta sulla vetta. La bellissima montagna, che ha offerto una magnifica arrampicata, è alta 5.810 metri e, non avendo alcun nome, la chiamiamo, “Nevado del Club Alpino Italiano”, ricordando così, a nostro modo, il glorioso sodalizio di cui facciamo parte.

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