Concludiamo questo nostro giretto pop attraverso il paesello, proprio al punto in cui tutto ha avuto origine: il Lambro.
Anzitutto il nome: perché si chiama così. Non ci sono comprovate certezze. La tesi prevalente gli attribuisce una derivazione dal latino Lambrus che, a sua volta, deriverebbe da una definizione celtica Lam, ovvero palude, a causa delle fangosità prodotte dai fontanili e dalle molte risorgive che quel popolo incontrò qui in pianura, nei territori circostanti il fiume. Un’altra, di tenore nettamente opposto, lo mette in relazione con il greco Lampròs, limpidezza delle acque; tant’è.
Il Lambro nasce al Pian del Rancio, sul monte San Primo, a circa 940 metri di altitudine.
Siamo nel comune di Magreglio, nel cosiddetto Triangolo lariano. Lo ritroviamo ad Erba dove ha già accolto le acque di diversi ruscelli e sta per immettersi nel lago di Pusiano, da cui inizia il suo percorso di Fiume della Brianza.
La fama del Lambro, prima che conquistasse l’ingrato titolo di fiume più inquinato d’Italia, era legata alla sua tortuosità torrentizia, alle frequenti piene ed alla ricca pescosità delle acque. Qui nel Parco di Monza, ancora nell’immediato secondo dopoguerra, all’altezza del ponte di viale Cavriga, giovani malnatelli da La Santa si immergevano in apnea per pescare a tana cioè catturare i pesci a mani nude, direttamente nei loro nascondigli. Ed erano trote, cavedani e carpe di ottima qualità, mentre a Milano ristoranti di livello avevano in menu El risottìn cunt i gambér dal Lambér, prelibati crostacei d’acqua dolce assai diffusi grazie ad un microclima ideale e alla buona qualità dell’acqua.
Poi sarà l’inizio della catastrofe. Colpevoli negligenze collettive, nella Brianza industriale di quegli anni, trasformeranno tutti i corsi d’acqua in altrettanti canali di scarico per veleni di ogni tipo. Il Lambro, in cui si convogliano tutte quelle acque, diverrà l’icona nazionale dell’incredibile conflitto fra ambiente e lavoro.
Le sue acque e, ancor più, gli alvei in cui scorrono, verranno devastati nel profondo e il lento processo di risanamento, semmai è iniziato, terminerà fra decenni.
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L’antica Coliate nasce sulla riva del Lambro. Siamo nel profondo Medioevo, anche se il primo accenno a Villa (da cui la definizione Villa con San Fiorano che nel corso dei secoli diverrà Villa San Fiorano) appare nel 1578, anno in cui San Carlo Borromeo, vescovo di Milano, istituisce la parrocchia di Santa Anastasia, rendendola autonoma da Monza.
La Villa è di gran lunga l’insediamento più rilevante di un possedimento molto esteso che contiene l’area dal Dossello alla cascina Casotto, fino al fiume e più su, ai confini con Arcore, fatta eccezione per il Molino Sesto Giovane, che entrerà nell’area solo nei secoli successivi.
La vocazione originaria degli abitanti è legata all’agricoltura e al bestiame ma, in quei tempi perigliosi del XVI secolo, fra scorrerie di predoni, epidemie di peste, cambi di proprietà, di destinazioni (la Villa era stata anche Convento delle Suore di San Paolo), e di dominazioni, c’è proprio da ritenere che da queste bande fosse la miseria a farla da padrona.
Solo in un secondo tempo, a ridosso del fiume, appariranno i primi mulini ad acqua e avranno inizio tutte quelle attività che abbiamo conosciuto parlando di Spadétt e zone limitrofe.
Approfondimenti relativi alla Vila Vegia si possono trovare a questo link sulla pagina della Storia di Villasanta
Terra e acqua, lavoro e riscatto. E’ qui che l’attività del lavare i tessuti stabilisce il suo nucleo storico.
Fra i Lavandée di pagn e i Lavandée da tela nasce e si afferma l’attività economica che farà decollare il paese: la sbianca. Il mestiere di donare alle pezze di tessuto grezzo da telaio il bianco candido, valore aggiunto che le rende commerciabili.
Rivoluzione industriale e Sbianca: qui da noi, lo ripetiamo, sono la chiave di volta di una accelerazione progressiva che produrrà lavoro per tutti.
Nel 1919 il primo marchio che industrializza l’attività e Ambrogio Radaelli, cui farà rapidamente seguito la Rossi Simeone (1923), marchio d’origine dell’ampia dynasty dei Rossi della Vila Vegia. Poi ancora la Rodolfo Piazza, solo per citare le tre aziende più rilevanti.
Per centinaia di donne e di uomini si spalanca una risorsa del tutto nuova, ricca di interessanti prospettive.
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Nel cuore dell’800 ecco apparire nuove realtà nell’ampio possedimento pervenuto nelle mani dei Conti della Somaglia: alludiamo a Villa Costantina (che sta sull’attuale via Baracca) a Cascina Maggioni (situata sull’attuale parcheggio de Il Gigante), ma soprattutto a un’altra Villa, che proprio perché è nuova (Növa), assegnerà all’altra, che sta giù da mezzo millennio in fondo a via Montello, l’etichetta di Vegia.
Si tratta di uno splendido insediamento a pianta classica con corte padana, costruito su due piani con ringhiera. Stalle calde, con bestiame; orti familiari, pollai e tutto ciò che caratterizza una Cascina lombarda di metà 800 a vocazione agricola.
Perché è proprio qui la novità; si sbaglia chi ritenga che anche questo insediamento rurale, che tra l’altro sta lì sull’attuale Via della Vittoria, a pochi metri dalla roggia Ghiringhella, si rivolga all’acqua come finalità lavorativa. Certo le donne avevano a disposizione un ampio lavatoio sulla roggia dove poter fare il bucato ma la Vila Növa era il Quartier generale di un’organizzazione agricola nella sua stesura più classica: latifondista-fittavolo-colono-pigionante-mezzadro-bracciante. Gli ettari da coltivare erano migliaia: andavano praticamente dal Lambro su fino ad Arcore e ad est; sant’Alessandro e San Fiorano.
Anche in questo nuovo sito si radica in fretta il principio solidaristico della Civiltà contadina, riassunto di una cultura di comunità, di mutuo aiuto, persino di una complicità protettiva fra ragazzi contro forme di bullismo d’antan che li sbeffeggiava come campagnoli.
Attorno alla fine del secolo XIX i proprietari del vasto latifondo diventano i Pennati, una famiglia monzese assai facoltosa subentrata nel possesso di vaste aree coltivabili qui nel monzese. E’ a loro che i residenti in Vila Növa versano gli affitti e saranno ancora i Pennati, dalla loro sontuosa residenza Neoclassica di via Frisi a Monza, a condurre la proprietà fino al suo ultimo stadio: gli anni attorno al 1970.
Le famiglie originali, i Villa, i Gaiani, I Brioschi, i Galimberti, i Pioltelli, i Colombo, i Galvani, ovviamente qualche Rossi e Radaelli, ormai si sono allontanate. Anche per loro il secondo dopoguerra ha costituito il punto di svolta esistenziale: chi si è scoperto artigiano, altri hanno conosciuto gli stabilimenti di Villasanta, altri ancora hanno preso la via per le ferriere di Sesto. Ormai, a governare ciò che resta del fondo basta Silvio con il suo nuovissimo, prepotente trattore.
Al loro posto, in una Vila Növa che mostra evidenti segni di degrado, prendono gradualmente residenza forme di immigrazione italiana e poi anche straniera. A sua volta attratta da un benessere possibile.
Ora, prima di salutare la Villa, almeno un paio di notazioni finali: la prima ha un titolo di nobiltà: La Milanesa. Si tratta di una donna sola, di cui si conosceva la provenienza: sfollata durante la Guerra da Milano città. Confusa fra la folla che fugge dai bombardamenti, arriva alla Vila Növa e, come molti altri compagni di sventura, finisce per occupare anche i solai. La sua professione è quella di insegnante. Ebbene questa donna ha messo in condizione di leggere e scrivere tutto il popolo della Villa, o giù di lì. La Milanesa si è portata via col suo mistero, la gratitudine commossa di decine e decine di paesani.
L’ultimo, doveroso ricordo, è per il prof. Giuseppe Colombo. (qui un link ad una mostra-omaggio) In uno dei nostri cento ferragosti vissuti all’Unione in modo tutt’altro che banale, quell’artista sanguigno, umile e innamoratissimo di casa sua, mi indicò la mura di cinta della Villa Növa ammonendomi che in quell’opera fossero incastonati frammenti di pietre risalenti al periodo del Romanico in Brianza.
Quindi pietre millenarie di provenienza sconosciuta, alcune delle quali recanti incisioni spezzate, ridotte ad anonima recinzione di una grande cascina. Ed era tutto vero, tant’è che molti di quei frammenti sono stati recuperati, ai tempi della demolizione di quella mura e ora sono raccolti e catalogati nella biblioteca comunale di Villa Camperio.
Sul medesimo perimetro della Villa Növa di un tempo e con lo stesso profilo, ora sorge un modernissimo residence.
Un Classe A sostenibile ed esclusivo che fa della propria autonomia energetica l’eccellente biglietto di presentazione. La Vila Növa oggi è tornata nuovissima. In grado di affrontare il suo tratto di Storia, il prossimo Secolo.
E il nostro breve viaggio potrebbe decorosamente terminare qui. Ma la natura pop di queste cartoline ci costringe a raccontare tutte quante le verità; anche quando sono un po’ così, quindi perché negarlo; la Villa Növa è stata anche all’avanguardia per via di un futuribile prototipo di toilette condominiale.
L’avevano piazzata là, nel bel mezzo del cortile. Si trattava di una costruzione a pianta tonda, fate conto la giostra su cui girano i cavallini (infatti, Giostra era la sua definizione gergale). Lo spazio era diviso a spicchi e ognuno rappresentava il servizio igienico a disposizione di ciascuna famiglia.
Va da sé, che in tempi di concimazione, il letame era lì, disponibile, genuino, fatto in casa.
Non vi pare un primissimo, lodevole esempio di economia circolare. Oh, non si buttava via niente!
(Ok. ho finito…vabbè, era per completezza di cronaca, no?).
Grazie alla cortese collaborazione di Moira Villa. Per le fotografie si ringraziano i fratelli Viganò di San Giorgio e Bartolomeo Ferrara per il suo libro Immagini ritrovate.
Gràzie è veramente istruttivo(
Un sentito grazie al grande Francesco Redaelli.
Come sempre un imperdibile mix di ricordi, emozioni e ricerca storica.