Diamola quindi per acquisita la leggenda beffarda del vitello, (bùscén), nero fuggito nelle tenebre e scambiato per un lupo (ul loeuff), appunto.
Questo splendido insediamento rurale, tipico della campagna lombarda, è una testimonianza autentica di una civiltà che ci ha riguardato tutti, nessuno escluso.
Praticamente intatta dal punto di vista architettonico, con una metà dell’ampio fabbricato a corte, costruito su due livelli di bei porticati destinata ad abitazioni, e l’altra metà, ormai decrepita, con le stalle al piano terra ed i fienili sopra. Vestigia dell’importante forno comunitario in mattoni, resistono fuori dall’uscita est.
L’attività agricola si è estinta da tempo con l’antropizzazione dei luoghi cui è via via seguito un radicale cambiamento di vocazione urbanistica.
Riandando ai riti dello splendido isolamento, resta memorabile la festa di maggio dedicata alla Madonna di Caravaggio, (Carevàas), appuntamento imperdibile che radunava una variopinta partecipazione popolare fra devozione e folk. Travolgente la folla e la tifoseria che dava vita alla Corsa degli asini (Cursa di asnétt), evento clou di ogni sagra.
Ul Frècc, ul Fius, i Bona, Camòn, ul Gerniètt, i Pola, eccetera, sono la tavolozza dialettale dei soprannomi che distinguevano omonimi alberi genealogici: Locati, Fumagalli, Corno, Teruzzi, Beretta, Guzzi, Ornaghi, Cambiaghi, Cazzaniga, Recalcati ed altri ancora; tutte dinastie che hanno effettuato la rapida emersione dalla mezzadria al benessere, aggrovigliandosi, una generazione dopo l’altra, in inestricabili cespugli di parentele sempre più ramificate.
Ul Regiù, La Regiura
E’ proprio in quella fase, a cavallo fra il XIX e XX Secolo, che avanza, nel silenzio, una mutazione culturale incredibile. La transizione fra mezzadria e proprietà del terreno mette in rilievo il ruolo della donna, non più legata a mere attività domestiche (i mestée) e, per il resto, subalterna a scelte patriarcali.
Formalmente è ancora e sempre “ul Regiù” a stabilire (a reggere, appunto) i destini della famiglia; ma nella sostanza, tuttavia, è la donna che, valutando il potenziale familiare, suggerisce linee di sviluppo e, amministrando le finanze (ul bursén), guida verso il conseguimento di risultati impensabili.
Il marito, tra l’altro, è diventato un lavoratore, (giurnadiée) che si procaccia reddito in luoghi più o meno lontani dalla cascina, e con molta fatica riesce ancora a reggere il peso supplementare della stalla e della vigna lasciando tutto il resto: pollaio (pulée), orto, bucato (bùgada), figli (bagàij), pranzo e cena (disnàa) alla moglie. Nasce così un nuovo patto non scritto che salda ulteriormente quei matrimoni: si mettono in cantiere progetti familiari di lunga durata.
Si tratta di donne di tempra eccezionale; gioventù brevi, poca scuola, molti rosari, rari motivi per sorridere. Del resto, come la pensiate: padri in guerra, mariti in guerra e poi ancora figli in guerra.
Con l’aggiunta di “Oro alla Patria”: per mezzo secolo più che vivere si è badato a sopravvivere. Vestine scure con fantasie di fiori, maniche rimboccate tutto l’anno fino al gomito, grembiule (scussàa) sempre davanti, capelli lavati il mese scorso e raccolti sulla nuca da chignon uguali per tutte.
Figli in cortile e giornate da 25 ore; sono le registe-architravi di ogni fortuna. Rimane avvolto nel mistero, infine, come ciascuna di loro abbia vissuto la propria vita affettiva.
Bacetti!? Non scherziamo. Era già buona quando non ti arrivava qualche scappellotto (mènavént) senza motivazione apparente.
La mia nonna, che Dio ce l’abbia in gloria, l’avrò vista sorridere un paio di volte in una dozzina d’anni. Lei passava da una carriola (carèta) alla gabbia dei polli (poej) con la stessa grinta la mattina e al tramonto.
Avanti è indrée dal Pulée al Cassinòt. Mai vista l’acqua del mare; quanto a Milano, suo marito aveva lavorato alla costruzione della stazione centrale, ma la nonna non ha mai visto né quei grandi capannoni e tanto meno la Madonnina.
Maria Levatrice
L’avevamo annunciata sulla pagina del “Palasètt” la scorsa settimana.
Maria Farina, Levatrice comunale, icona dell’amore, mamma di tutti noi. Abbiamo recuperato questa sua immagine che la ritrae il giorno in cui le conferiscono la benemerenza cittadina per i quarant’anni di splendido servizio. Ecco, quarant’anni. Quindi, ci correggiamo, si va dall’inizio degli Anni ’30 al 1970: un’infinita collana di maternità.
Gradisce una fondina di Pumiàa ?
Cominciavi ad assaggiarlo col naso. Nel senso che all’ora di cena, soprattutto, quell’aroma (disèmm inscè), penetrante, ti coglieva alla sprovvista, passando di sfioro a certe finestre in cascina. E non c’era alcun dubbio: stasera pumiàa!
Piatto povero, preparazione basica, bomba calorica. Cosa chiedere di più.
Ricetta (mamma mia…). Mettere sul fuoco una bella pentola (stegnàa) d’acqua. Nel frattempo aver cura di affettare una adeguata quantità di pane di segale (Pangiàlt, per l’esattezza), da mettere in acqua alla bollitura. Nel frattempo, la massaia dovrebbe aver già predisposto, a lato del camino, una bel blocco di sugna (sungia), grasso fresco di maiale, (da qui l’inconfondibile annuncio olfattivo), che conferisce il notevole contributo calorico alla vivanda.
Rimescolare con fiducia fino a che il tutto si rapprenda, formando una specie di zuppa che si potrà apprezzare a cucchiaiate dalla fondina o dalla scodella. In attesa che, domani sera la mamma, in evidente crisi di fantasia in cucina, ne prepari un altro bel piatto, di pumiàa.
P.S.: Dicono che durante la fase di bollitura, la sungia rilasci frammenti di grasso (gratòn) che fanno la gioia dei più ghiotti. Dicono.
Natale in casa Cambiaghi
E’ da un mese che la nonna ha battezzato la gallina (gaìjna) più vecchia. Sarà lei, la gallina intendo, la protagonista del Pranzo natalizio. Dal collo fino all’estremità delle zampette la gallina fornirà ottimo brodo per il risotto, prima di andare a completare il “carrello dei bolliti” con parti selezionate del suino macellato in autunno, e di qualche pezzo nobile di manzo, magari portato a casa mediante baratto con parti del suino di cui sopra.
La nonna vorrebbe apparecchiare ancora in stalla; là c’è sempre un bel tepore, si sta bene tutti insieme. Ma per questo Natale, la grande novità è un tavolo molto lungo in mezzo alla cucina. Ci vogliono due tovaglie per coprirlo e c’è spazio per i gomiti.
Il risotto è uno spettacolo: d’accordo lo zafferano non c’è, mancherebbe anche una spolverata di grana ma quel brodo fa storia a sé. Così come ti ruba gli occhi il carrello (carrello…) dei bolliti. Chissenefrega se non ci sono né mostarda né salsa verde, quelle carni fumanti fanno di questo pranzo un evento indimenticabile.
Panettone? Non l’abbiamo mai visto ma il papà ha nascosto lo stesso nella madia alcuni pezzi di pane che andranno bene per benedire la gola a febbraio, il giorno di San Biagio.
Noi chiudiamo questo splendido pranzo con un paio di “patate alla brace”. Sì, le abbiamo fatte rosolare nella brace del camino per pochi minuti…sono una bontà.
Volti, Cognomi e Soprannomi
Qui, naturalmente, si esce dal confine della Cassina per spaziare in un modo d’essere, magari un poco datato, che permetteva di distinguere, con appellativi più o meno scherzosi, un individuo da un altro, aventi lo stesso cognome. Ce n’era per tutti.
BOSISIO – Barzaghèn |
BRAMATI – Palancòn |
BRAMBILLA – Mundu |
BRIGATTI – Palcoeura |
CAMBIAGHI – Camòn – Scepàda |
CASTOLDI – Bagagina |
CAZZANIGA – Bosi – Catràm – Nièl |
CAZZANIGA/LOCATI – Pola |
CENTEMERI – Pacelèt |
COLOMBO – Ciaputèl – Mascambrina – Maroch – Tiel – Pot (Agostino) |
CORNO – Gulpìn |
CORTI – Bigiòn |
DAELLI – Reseghén |
DELLA TORRE – Lomagnèta |
ERBA – Zepòt – Gugnétt – Caferén |
FARINA- Purana (Pina infermèra) |
FERRARIO – Paulòtt – Zon |
FOSSATI – Baregia |
FUMAGALLI – Turén |
GALLI – Pintòna |
GILERA – Gianduia |
LEVATI – Gileròt – Fius – Zachèta |
LOCATI – Frècc |
LOCATI/RECALCATI – Milòt |
MAGNI – Cavagnén |
MALEGORI – Fiurén – Martelèt – Rampinètt – Sperlùscioeu – Umbrellée – Legorìn |
MANZONI – Brùgoe |
MESSA – Gibèt |
MOTTA – Carpègna – Baloera – Pencia |
NAVA – Scanà – Zelén |
ORNAGHI – Gerniètt – Gainòn |
PALEARI – Zin – Paé |
PIOLTELLI – Gnach |
RADAELLI – Salamén – Murètt – Bigiunèll – Bernascèll. |
RECALCATI – Piola |
RIPAMONTI – Pichén |
ROSSI – Candidén – Clètu – Simeòn – Fràa |
SALA – Bùscinatt – Marnòn – Pisòn |
SANTAGOSTINO – Barbelètt |
TAGLIABUE – Mangiagatt |
TERENGHI – Faél |
TERUZZI – Cùdiga – Minètt – Majabagai – Pirulèn |
VIGANO’- Sturgen – Sciavattina |
VILLA – Cipilot |
ZAPPA – Scitòn – Fresch e Bella |
Poi, va da sé, ce ne sarebbero un altro paio di dozzine e sarebbe divertente che si innestasse una cordata di testimonial che ci dicano chi fossero: Scisteu, ul Minàra, ul Lavapecc, Michetòn ul Marciabàl e Precìs.
Nel frattempo ringraziamo con simpatia: Antonia Spreafico, Sergio Cambiaghi, Sergio Cazzaniga, Claudio Centemeri, Franco Citterio, Gerardo Malegori e Giancarlo Paleari.
Ringraziamo anche i fotografi, in particolare Bartolomeo Ferrara e Michele Pellegrino.
Vai all’articolo per approfondimenti storici sulla Cascina Recalcati.
A parte l’interessante aspetto storico di una comunità, mi preoccupa un po’ il compiacimento del tempo che fu… Quasi a rimpiangere quei miseri periodi… “Si stava meglio allora”… Dimenticando che la vita dei contadini era una vita misera e miserabile, fatta di sfruttamento e fame… L’albero degli zoccoli non ha insegnato niente? Oltretutto è un film cattolico che rimpiange quel “bucolico” periodo. Quindi va bene la parte storica, meno quella del compiacimento…