Torniamo a un luogo che è tra i più antichi insediamenti del nostro paesello. Nei secoli, il convento originario che segnava l’ultimo approdo di pellegrini e viandanti in direzione Milano, si era mutato in cascina rurale avendo a disposizione una vasta area di fondi da governare.
Qui gli approfondimenti di Guido Battistini sulla frazione di Sant’Alessandro.
E’ assai probabile che inizi qui il radicamento dei Locati e dei Varisco; le due famiglie di fittavoli che lavoravano per conto di Zanotto Parpaglioni, l’ultimo titolare del vasto latifondo. Siamo nella seconda metà dell’Ottocento. In seguito la proprietà perverrà all’Ospedale di Monza e quindi all’Ente Comunale, (monzese), di Assistenza: istituzioni pubbliche molto più interessate a riscuotere affitti che non ad occuparsi della cura e della manutenzione degli immobili.
Si apre la stagione delle dismissioni: parte degli alloggi viene ceduta agli stessi contadini che vi abitano e ne hanno prelazione.
Ne deriverà la divisione in due corti separate e la conseguente leggenda che accredita la suddivisione effettuata sulla base di criteri di appartenenze politiche, cioè fra “paolotti e socialisti”; una storia che ci accompagna fino alla metà del Ventesimo secolo.
Anche la grande comunità di Sant’Alessandro , come si è già registrato a San Fiorano e altrove, attraversa quindi la stagione della bachicoltura, del passaggio da colonìa a proprietà dei terreni. Una evoluzione vertiginosa che porterà, dopo la seconda Guerra mondiale, al cambiamento epocale dello status di decine di famiglie. In pratica è il riaffermarsi della medesima traiettoria: la cultura brianzola applicata ad un pragmatismo che diffonde benessere. Protagonisti di questa transizione, con i Locati, sono i Teruzzi, i Galimberti, (da Ida e da Angiulèta), i Corti (Ciapòn), i Sironi (Baghèl), i Farina, i Fontana e i Viganò nel primo cortile e tutta una genìa di Varisco (Massée) e di Zappa nel secondo.
Ceppi familiari che arrivarono a contare fino a 5oo anime tant’è che, per dirne una, ad un certo punto in cascina vivevano non due ma ben tre Giuseppe Locati. Come uscire dal groviglio? Semplice: con i soprannomi. Ecco quindi “Nen” “Non” e “Nan” e tutti e tre i Peppini erano sistemati.
Permettetemi un ricordo della mia mamma che, così come altre cento, mandavano i figli ogni tramonto in cascina a prendere il latte in stalla, ancora caldo di mungitura. Tornavo a casa col mio caldarén bel pieno e un’ora dopo mia madre lo serviva per cena come elemento base di riso e latte, caffellatte, pane e latte, polenta e latte, semolino e non so più quali altre variazioni sul tema: ci ha tirati su, come si dice, a dosi massicce di quel carburante che più intero non si può. Ora mi dicono che di lattosio si può anche morire. Non riesco a crederci.
Ultima notazione: un forte acceleratore dell’esplosione socio-economica della Sant’Alessandro anni ‘50/’60 è la sua collocazione: la sempiterna strada consolare verso Nord, di certa impronta Romana, è diventata la Strada Statale 36 del lago di Como e dello Spluga ci passano tutti, ma proprio tutti. Ebbene, se voi oggi osservate la dorsale via Leonardo da Vinci, avendo alle spalle piazza Daelli, dovete considerare che, sul lato destro, l’abitato terminava virtualmente all’agglomerato Magni, ( angolo via 24 maggio), fatti salvi i pochi fabbricati di via Meucci/Pier Capponi.
Sull’altro lato, al di là della Molgorana, si arrivava alla via Privata, (oggi Galilei), con le costruzioni più datate. Più in là rimanevano le due officine Galli, Alfredo e Ambrogio, entrambe fabbriche di Presse eccentriche e cesoie a fronte delle quali aveva appena aperto la Carrozzeria F.lli Cazzaniga, (Paduànn), con distributore di benzina Aquila e accurato autolavaggio.
Oltre il ponte sulla littorina, verso la cascina, erano nati lo Scatolificio Locati, l’omonima tessitura e la piccola fonderia dietro Sant’Alessandro: tre realtà ormai spente. Per il resto era tutta repubblica di mélgascch.
Ma la “Statale 36” mette in luce che il mondo è diventato un’altra realtà: in breve spariscono carri e cavalli, sfrecciano auto bellissime accanto ad autotreni colossali, (e molto puzzolenti se pensiamo a quelli che portano maiali vivi ad Arcore da Molteni oppure a Casatenovo da Vismara).
La disponibilità di posti di lavoro, insieme alla vicinanza con Monza, con il parco e la qualità del ciclo scolastico, fanno da catalizzatore di un incalzante aumento della popolazione. E saranno naturalmente i territori periferici ad accogliere questa grande espansione urbanistica.
Nasce il grande quadrilatero via Segantini, Buonarroti, Van Gogh, Tiepolo, Modigliani e Vecellio, fino in fondo a viale della Vittoria. Su gran parte su quelle aree troveranno spazio gli edifici che caratterizzarono la stagione delle Cooperative edificatrici a Villasanta: il nostro piccolo grande boom.
Già agli inizi degli anni ’50, i fratelli Vimercati, titolari della linea di pullman Villasanta-Monza, avevano trasferito il capolinea da piazza Daelli allo slargo che sta di fronte alla chiesetta di Sant’Alessandro.
Il nucleo storico, a sua volta radicalmente ristrutturato, mutava il proprio ruolo per divenire centro di un quartiere moderno con beneficio di uffici, servizi pubblici, residenze, viabilità interna.
Mai visitato la chiesetta? Beh, merita. Per un certo periodo Don Giulio Oggioni ha guidato la comunità di Sant’Alessandro da autorevole padre spirituale, prima di avviarsi su quello splendido percorso che lo porterà ad essere vescovo a Bergamo.
DON GIULIO, UN FUORICLASSE IN CASCINA
Era nato nel giugno del ’16 al Campascètt, la piccola cascina che si trovava sul terreno che oggi ospita l’ampio insediamento ex Delchi, oggi Tagliabue Gomme, che apparteneva allo stesso ramo degli Oggioni cui si aggiungerà, nel 1930, lo scalatore Andrea, Accademico del C.A.I., suo cugino.
Don Giulio viene ordinato sacerdote nel ’39 e nell’immediato dopoguerra lo si ritrova insegnante di filosofia al noto collegio Villoresi San Giuseppe di Monza. Per convenzione è proprio questo istituto che garantisce i servizi liturgici alla chiesetta di Sant’Alessandro per cui, al momento di un avvicendamento, non sembra vero inviare a Villasanta un sacerdote che più villasantese non si può.
Col senno di poi, diciamolo chiaramente e con il dovuto rispetto, è stato come spedire un fuoriclasse a giocare in una squadretta di provincia. Per noi ragazzini delle elementari, in quella seconda metà degli anni ’50, gli incontri settimanali con don Giulio contavano tanto. Non che noi si fosse dei grandi annusatori d’incenso, anzi; ma le parole di quel sacerdote, ancora prima il suo atteggiamento verso di noi, ci catturava: non c’erano moine né ipocrisie; né primi della classe né bagaj da nissùn, né leader né gregari, per don Giulio eravamo piccoli alunni da formare. Studentelli di cascina, questo sì, ma con pari dignità dei liceali di Monza.
E’ un primo elemento che va sottolineato. Mette in risalto il profilo essenziale dell’uomo. Poi arrivava la straordinaria efficacia oratoria a completarne il carisma. La parola del Signore lui la maneggiava durante ogni omelia fino a renderla tangibile, pane per tutti i giorni. Memorabile un’accorata esortazione contro la bestemmia, durante una messa della domenica mattina. Scandagliò ogni aspetto disdicevole della questione arrivando a un millimetro dalla esemplificazione esplicita: da far fischiare le orecchie. Grande sacerdote. Eccellente insegnante.
In breve la chiesetta si rivelò piccola, troppo piccola. Del tutto Inadeguata per quell’overbooking di presenze. Venivano da fuori per ascoltarlo e, se ricordo bene, si arrivò a raddoppiare il numero delle funzioni domenicali.
Com’è ovvio che fosse, quella stagione non durò a lungo. Nel ’60 Don Giulio Oggioni viene chiamato in Diocesi a Milano. Gli affidano l’Ufficio per la guida spirituale dei giovani presbiteri ma, soprattutto, viene nominato Vicario del Vescovo e inizia la carriera di docente universitario presso la Facoltà di teologia dell’Università Cattolica del Sacro cuore. Nel 1972 viene ordinato Vescovo da Papa Paolo VI e inviato a Lodi, dove rimarrà fino al 1977. Lo stesso anno verrà trasferito a Bergamo dove rimarrà fino al 1991. In qualità di Vescovo emerito si spegnerà in quella città il 26 febbraio del 1993.
Il suo ricordo è ancora vivo in molti di noi. Ah, dimenticavo: non sono mai riuscito a bestemmiare. Non ci riesco.
AMERICA’S CUP IN MOLGORANA
Eccoci qui, pimpanti ed attrezzati sul ponticello di legno sulla Molgorana, all’altezza del sentiero della Croce. (Via Buonarroti? Non c’è; non l’hanno ancora inventata!). Muniti di latta di pelati, di piselli, fagioli (preferibilmente vuota), o altro oggetto galleggiante (anche la plastica è di là da venire).
La Molgorana, già. (Non c’è più nemmeno lei ma ve la potete immaginare scorrere esattamente sotto la pista ciclabile di via Leonardo da Vinci).
Fino a un paio d’ore fa scivolava silenziosa e garrula color Fanta. Sì, di tanto in tanto veniva giù da Arcore nemmeno fosse la fonte dell’aranciata. Persino le pantegane, (pantegane da competizione, s’intende), si astenevano dalle tradizionali traversate, fino a quando non si ristabiliva la normalità.
La cascina come si presenta oggi
La gara consiste nel mettere in acqua un proprio natante che navigherà nella roggia, in regata contro altrui lattine. Vince chi taglia per primo il traguardo, galleggiando fino alla cascatella che sta poco dopo il ponte della ferrovia al Burguneuf, (di fronte al veterinario, via Pier Capponi).
Durante la gara è consentito aiutare la propria tolla (o cercare di affondare le contendenti) a sassate. Correndo in dribbling nel boschetto di robinie che costeggia la roggia, cercando di disincagliare il tuo natante, quando si impiglia tra i vortici della Molgorana.
Dal sentiero della Croce al traguardo non ci sono altri ponti. Il più vicino è quello che porta alla Ambrogio Galli, quindi, per recuperare la tolla, si dovranno mettere i piedi a mollo. Ma se arrivi primo, vuoi mettere la soddisfazione…
Raramente la regata arriva fino in fondo ma, come dirlo, quel pomeriggio non c’era nulla di meglio da fare.
RICETTA – Ul puccén di intraij di Natale
Ul Puccén di intraij di pollo si prepara tagliando per il lungo le interiora per poi pulirle e lavarle a fondo e poi, a pezzetti, insieme a fegato, cuore e stomaco (i intraij, appunto). Pesare cipolline per almeno il doppio peso della carne, affettarle e farle cuocere, con burro, olio e pancetta pestata, a fuoco lento, dopo averle salate e coperte. Quando le cipolle saranno quasi sfatte (palpàa), aggiungere pochissima salsa di pomodoro, rimescolare bene e quindi aggiungere le interiora di pollo preparate; mezzo bicchiere d’acqua su quattro etti di carne e otto etti di cipolline. Coprire e far cuocere molto lentamente per un’ora e mezza. Una leccornia all’insegna del qui non si butta via niente !
Un ringraziamento per la cortese collaborazione a Marisa Bonalume, Salvatore Teruzzi, Antonio Locati e a Michele Pellegrino. Le foto sono tratte dal libro Immagini ritrovate di Bartolomeo Ferrara.
Bello ,abito nella zona da 10 anni e non conoscevo la storia.Grazie x le informazioni.
Complimenti! Bellissimo articolo, leggendolo mi è sembrato di vivere in quei periodi e mi ha fatto tornare alla mente i racconti dei miei nonni. Grazie
Colgo l’occasione per complimentarmi con Franco Radaelli e con Battistini. Cio ragazzi di un tempo che fu.
Tanti auguri a tutta la redazione del Punto per il nuovo anno che sia libero r felice.
Come sempre ottimo il tuo articolo complimenti a te e a quanti hanno collaborato alla ricerca. Un saluto
Alberto Cucchi