Dalla cima del Nevado da poco conquistato, possiamo osservare tutto il gruppo. Verso Sud si snoda la interminabile spina che forma il gruppo dei Palomani, a Nord si notano confusamente delle cime che emergono da fiumane sconvolte di ghiaccio, e fra esse due bellissime punte, più in fondo, sempre seguendo la cresta spartiacque che fa da confine tra Perù e Bolivia, si alzano le due cime più alte del gruppo. Notiamo che per scalarle occorrono altri campi, uno piantato in territorio boliviano ci permetterà di salire altre montagne poste ad Est del luogo dove risiediamo. Ci sono montagne in abbondanza, fin troppe, da non sapere con precisione quale scegliere: sceglieremo le più alte.
Dalla vetta del Nevado del C.A.I. possiamo anche studiare con sicurezza il percorso da farsi sui ghiacciai durante le nostre esplorazioni.
Scesi dalla Laguna Paradiso ci troviamo riuniti col resto della spedizione. Ora prepariamo l’occorrente per il giorno seguente, il materiale adatto e i viveri necessari per l’ascensione. È una bella impresa quella che ci accingiamo a fare: scalare i Palomani per la lunga cresta che parte da Nord, dal colle dell’Ochocollo, e va verso Sud fin sulla cima del Nevado Palomani Grande. È molto lunga la cresta ed anche spezzata da enormi cornici, se poi troveremo della neve farinosa la marcia sarà ancor più faticosa. Siamo bene acclimatati e ci sentiamo tutti in stato di grazia e molto fiduciosi.
Lasciamo le tende prestissimo, siamo in tre: io, Sterna e Zamboni. Costeggiamo per un buon tratto la sponda del laghetto, superiamo una breve morena e ci portiamo alla base del muro di ghiaccio che porta sul colle dell’Ochocollo. Ci leghiamo, passa in testa Sterna e inizia un delicato lavoro di gradinatura. Presto siamo sul vasto platò di neve del colle che porta giù in una vasta valle boliviana. Noi dobbiamo tenere la cresta che subito si fa ripida, la seguiamo tenendo la corda fra le mani e camminando molto veloci sotto i raggi brucianti del sole. Quello che disturba è che, con questo caldo, troviamo sul nostro percorso dei tratti di neve farinosa, da sprofondare fino al ginocchio. Meno male che abbiamo avuto la buona idea di portare i bastoncini da sci, saranno compagni di tutte le nostre scalate. Senza fermarci raggiungiamo la prima cima, è la vetta del Nevado Ochocollo, di 5.755 metri di altezza, questa prima vetta raggiunta prende il nome del colle posto all’inizio delle sue pendici ghiacciate. Qui le cime che hanno un nome, escluso i Palomani, sono poche e sono chiamate in lingua “chequa”, cioè il linguaggio degli indios del luogo: una lingua avara che, con una frase anche cortissima, vuol dire molte cose.
Seguendo sempre la lunga cresta verso Sud, superando salti di ghiaccio molto delicati per la loro strana conformazione, sbuchiamo sulla cima del Nevado Palomani Cunca la cui vetta è di 5.888 metri.
Scendiamo ora su un altro colle e attacchiamo una lunga cresta piana molto difficile, perché ostacolata da enormi cornici. Occorre più di un’ora di delicate manovre di corda per venirne a capo. Sotto abbiamo un salto di mille metri.
Lasciata alle spalle la pericolosa cresta, ci abbassiamo ad un altro colle: ne abbiamo fatto del su e giù in queste ore, ma adesso siamo veramente sotto l’ultimo grande pendio del Nevado. Saliamo per la parete ghiacciata ricamata stranamente dai forti raggi di sole e a un certo punto abbandoniamo i bastoncini da sci diventati in questo momento inutili. Lavoriamo di piccozza: attraversiamo un’ultima crepacciata e finalmente il grande cono che porta sulla cima.
Alle dodici e trenta le nostre bandierine garriscono sulla vetta del Palomani Grande, a 6.115 metri. La mezz’ora di sosta sulla cima è uno dei più bei momenti che possa godere un’alpinista: facciamo anche uno spuntino e ne abbiamo il diritto, dal mattino non abbiamo assaggiato che una fetta di lardo affumicato, ma anche questa colazione è molto magra: un cubetto di marmellata e qualche caramella, poi giù, fino ai bastoncini.
Rifacciamo la difficile crestina, resa più difficile dal grande calore: usciamo al suo termine illesi, risaliamo la vetta del Palomani Cunca e, per la sua parete Ovest, scendiamo sul laghetto di Laguna Paradiso.
Poco dopo sono di ritorno anche Merendi, Mellano e Magni: hanno scalato una vetta nevosa al termine del vasto ghiacciaio posto sopra il campo, dandole il nome di “Nevado Donegani”. È alta 5.985 metri. Andando avanti di questo passo sentiamo che in breve tempo tutte le cime messe in programma possono essere felicemente raggiunte. Ora è il 29 giugno, è domenica e anche la festa di San Pietro e Paolo, ci sentiamo in dovere di festeggiare l’onomastico dell’amico Magni con un meritato riposo. È riposo alpinistico, ma al campo si lavora, si puliscono scarpe, si mettono al sole i piumini e i materassini e si cerca di dare aria a tutto, specie alle calze, disseminandole ovunque.
All’indomani partiamo nuovamente: la nostra meta è una delle belle guglie viste dalla cima del Nevado del C.A.I. Sono due punte bellissime. Ora ci dirigiamo verso la più vicina. Sul ghiacciaio ci leghiamo in due cordate, la prima formata da Sterna Mellano e me, seguiti da Zamboni, Merendi e il portatore dimostratosi in questo caso anche eccellente alpinista, quasi suo malgrado. La scalata è impegnativa, vengono superati muri verticali di ghiaccio così duro e così lavorato dal susseguirsi del calore e del gelo da rendere le pareti ricche di appigli e spuntoni di ghiaccio come se si fosse su roccia: è naturale che su questi tratti occorra una certa delicatezza, ma il grande contrasto è dato dal platò di neve polverosa che bisogna pestare all’uscita di questi passaggi.
Anche questa cima viene raggiunta, la sua altezza è di 6.010 metri e le viene imposto il nome di “Nevado Fior di Roccia” per onorare la società alpinistica milanese cui appartengono Zamboni, Merendi e Sterna.
Il giorno dopo affrontiamo il secondo picco ghiacciato.
Altra arrampicata molto complicata e resa difficile dalle brutte condizioni del ghiaccio, spumoso e poco resistente. Anche in questa nuova impresa siamo sempre divisi in due cordate di tre uomini ciascuna: io con Frigieri e Sterna; Zamboni con Merendi e Magni. Quando raggiungiamo la cima ci troviamo su un corno molto aguzzo e molto piccolo: ci si sta in due o tre a fatica, perciò ci abbarbichiamo sui fianchi per le rituali fotografie.
Anche questa vetta è alta 6.010 metri e la battezziamo “Pico forge Chavez”, ricordando un eroe del Perù, un eroe dell’aria caduto in Italia a Domodossola, mentre stava portando a termine la prima trasvolata delle Alpi.
Durante la marcia di ritorno sul lungo platò di neve che porta al campo di Laguna Paradiso, vediamo avanzarsi da Est una folta e compatta formazione di nuvole. Già da qualche giorno, guardando in direzione dell’immenso bacino dell’Amazzonia, osserviamo un fitto strato di nebbia: ora esso manda avanti le sue avanguardie sotto forma di grosse nuvole biancastre.
Presto la maggior parte del cielo è coperto e poco dopo cade, con nostra grande sorpresa per il gran caldo, qualche fiocco di neve. Prima che tramonti il sole, col sopraggiungere della fredda temperatura, il cielo si pulisce completamente.
Ora è giunto anche il momento di scalare il Nevado Salluyo e, per poterlo prendere d’assalto e vincerlo in una giornata, occorre avvicinarlo con un altro campo leggero. È necessario piantarlo in territorio boliviano su strisce di morena alla base di un altro immenso ghiacciaio.
Tutti, con un carico leggero di tende, corde e viveri, diamo la scalata al colle dell’Ochocollo raggiungendo il grande e lungo platò di neve farinosa che ci porta giù in una vasta valle ad Est dei Nevadi Palomani. La marcia è faticosa, nonostante si cammini su di un terreno molto piano, anzi a volte in discesa: dobbiamo avanzare cautamente per tenerci lontani dagli enormi crepacci mascherati dalla candida coltre nevosa. Nel pomeriggio tocchiamo terra ferma: la cima di un promontorio morenico che divide il grande platò da un vasto ghiacciaio serve da luogo per il nostro piccolo campo, siamo a quota 5.665. Prima che faccia scuro, Frigieri e il portatore che ci hanno aiutato a trasportare il carico, risparmiandoci così una parte di fatica, scendono nuovamente al campo di Laguna Paradiso.
Al nuovo campo siamo rimasti in sei. Riparati sotto due tende aspettiamo che arrivi il momento per partire definitivamente per la cima del Salluyo. Il momento non si fa attendere molto e, prima che il sole faccia la sua apparizione nel cielo, siamo già impegnati a pestare il noioso platò che ci porta alla cresta Ovest. Siamo ancora divisi in due cordate, Sterna e Mellano, seguiti dalla cordata formata da Zamboni, Magni e Merendi, è naturale che i cambi di posizione in testa alla cordata si facciano sempre più frequenti, ed è proprio necessario: bisogna battere la pista a turno per arrivare alla cresta in buone condizioni e anche molto presto. La cresta Ovest del Salluyo, a schiena di mulo, viene superata evitando tutti i suoi crepacci senza potere però evitare delle chiazze di neve molto insidiose perché provocano valanghe.
Quando raggiungiamo il pendio finale, siamo presi in pieno dai raggi del sole: ora il tipo di neve è cambiato, data la eccessiva inclinazione della cresta, il sole rende la neve pesante e marcia. Ma anche il Salluyo ha una vetta e questa è raggiunta: sono solo le undici quando calchiamo felici la sommità della montagna, a 6.250 metri. Dalla vetta del Salluyo studiamo la formazione del Nevado Chupiorjo e ci rendiamo perfettamente conto che per scalarlo occorre aggirarlo completamente a Nord: ciò significa tornare al campo leggero, raggiungere la Laguna Paradiso e scendere al campo base per inoltrarsi in una valle che aggira l’intero gruppo dove operiamo in questo momento.
A nostro parere è un giro alquanto lungo, ma il Nevado è il più alto di tutta la Cordigliera di Apolobamba, perciò occorre tentarlo. Da Est si avanza, come avviene sempre nelle ore più calde, una fitta formazione di nebbia, speriamo nella clemenza del tempo. Dopo circa mezz’ora passata sulla vetta, scendiamo lungo la via di salita per raggiungere il campo leggero. Sul lungo platò nevica, ma è per poco; nel pomeriggio inoltrato, quando il piccolo campo è raggiunto, il cielo ritorna completamente azzurro.
Al campo leggero passiamo una seconda notte e al giorno dopo dobbiamo battere in ritirata, ma chi lascia il campo per portarsi a Laguna Paradiso sono Mellano e Magni. Noi quattro, divisi in due cordate, io con Zamboni e Sterna con Merendi, contiamo di salire altre cime nella zona, e mentre Merendi e Sterna si dirigono a una cima seguendo in parte il percorso del Salluyo, io e Zamboni affrontiamo un cono ghiacciato distante quattro chilometri in linea d’aria dal piccolo campo. Questo gruppo è dislocato interamente in Bolivia.
Iniziamo prestissimo la nostra marcia di avvicinamento attraverso un grande ghiacciaio, superata una seraccata entriamo in un altro ghiacciaio molto lungo, completamente coperto di neve farinosa. Siamo diretti ad un cono ghiacciato, ma il programma è di scalare due cime nella stessa giornata, cioè, oltre al cono, anche una cima completamente rocciosa, ed è l’unica montagna interamente di roccia che esista nella zona. La nostra marcia continua molto veloce, tenendoci distanti l’uno dall’altro tutta la lunghezza della corda essendo il platò pericolosissimo per i numerosi e vasti crepacci nascosti sotto la coltre di neve: è un proseguire prendendo ogni tanto una fitta al cuore per lo strano rumore che sale dal ghiacciaio sotto il nostro peso quando saltiamo qualche crepaccia, e dato che questo rumore regolarmente ci fa sobbalzare, battezziamo il ghiacciaio col nome di “batticuore”. Dopo una lunga camminata siamo sotto ad una parete di circa trecento metri, il ghiaccio è a forma di penitentes, cioè una ragnatela di crestine taglienti lavorate stranamente dal sole: la vetta è presto raggiunta. La quota è di 5.987 metri. Voglio chiamare questa montagna, col consenso dell’amico, “Nevado Città di Monza”, in onore della città cui alpinisticamente appartengo.
Sulla cima, ecco arrivare in formazione compatta le prime nuvole, questa volta si vedono più presto del solito, ma non ci badiamo. Scendiamo lungo il lato Ovest su un altro ghiacciaio parallelo a quello del Batticuore. Ora c’è una fitta nebbia, ma, tra una folata e l’altra, vediamo la grande torre rossastra di granito che si avvicina sempre più. Alle prime rocce si mette a nevicare seriamente: non sapendo se andare avanti, decidiamo per una piccola sosta dedicata ad un leggero spuntino. Abbiamo osservato con stupore che la neve, a contatto col granito, subito si scioglie, decidiamo di sfruttare questa occasione e, prima che le rocce abbiano ad innevarsi, affrontiamo la torre. La salita si svolge in un canalino pietroso molto ghiacciato fino a raggiungere un colletto: qui, legatici a due corde, con l’uso di qualche chiodo, superiamo una verticale paretina che offre un passaggio di quinto grado. Il superamento è reso difficile dall’abbondante neve che cade bagnando tutto per il rapido scioglimento. Al termine della placca un tremendo boato ci fa sobbalzare: è un fulmine, e mai mi è capitato di sentire un colpo così potente e prolungato. La vetta è raggiunta fra il forte turbinio della neve e la nebbia ci nasconde tutta la visibilità: siamo a 5.982 metri in cima al picco roccioso e, fra i sassi della sua vetta, nascondo un piccolo barattolo con un biglietto su cui c’è scritto il nome dei primi salitori e il nome da noi dato alla montagna e precisamente “Pico Villasanta“, eternando così sulla lontana cordigliera delle Ande il ricordo del mio piccolo paese natio.
Con una calata a corda doppia scendiamo sul colletto; scendiamo il canalino reso infido per le pietre affioranti dal ghiaccio, viscide, e raggiungiamo il ghiacciaio; in breve ci portiamo in un altro canale che ci “scarica” infine sul vasto ghiacciaio del Batticuore. Una lunga e faticosa camminata ci porta a sera al nostro piccolo campo dove ci sono anche Merendi e Sterna che durante la giornata hanno scalato una bellissima guglia ghiacciata.
Ora, qui, non abbiamo più nulla da fare, perciò consumiamo la nostra cena molto soddisfatti: è una magra cena, un’ultima porzione di pastina divisa in quattro e qualche biscotto, poi ci infiliamo nei nostri piumini; domani, soddisfatti, ritorneremo al campo base.
La notte è freddissima: tutto è gelato e le scarpe si sono fatte così dure da essere calzate a fatica, un fitto nevischio rende la visibilità difficoltosa. Speriamo che il vento non abbia riempito di neve le nostre tracce, altrimenti sarebbe un vero guaio.
Sotto il persistente brutto tempo spiantiamo le due tende e, caricatele sulle spalle con le corde, i fornelli, e gli indumenti di ricambio, affrontiamo il platò di neve che ci porta nuovamente in Perù per il vasto colle dell’Ochocollo. Dopo cinque ore di marcia, con un cordino fissato ad una piccozza scendiamo il ripido pendio che porta sul laghetto. Per ultimo scende Sterna ricuperando tutto e più tardi siamo sul luogo dove sorgeva il Campo di Laguna Paradiso. Del nostro piccolo campo non rimangono che le tracce, ma, al riparo di un sasso, troviamo qualche scatola di carne e dei cubetti di marmellata. Una leggera colazione, e poi giù nella valle del Cavallo Morto. Dove esiste lo scheletro dell’animale, troviamo ad attenderci il portatore indio con un cavallo; carichiamo il nostro materiale sul dorso della bestia e riprendiamo la marcia costeggiando il lago che porta all’accampamento.
Nevica ora a larghe falde ma a questa altezza, che si aggira sui 5.000 metri, la neve non riesce ancora a rimanere sulla gialla erba, cadendo si scioglie subito, come se fosse a contatto con qualche cosa di caldo.
Prima che calino le tenebre, possiamo riposarci e ristorarci sotto la grande tenda magazzino, in compagnia di tutti gli amici. Ora è necessario riposare qualche giorno per vedere anche come si mettono le condizioni meteorologiche, se il tempo ritorna favorevole il Chupiorjo potrà essere preso d’assalto. Abbiamo anche bisogno di mangiare qualche cosa di fresco. Le munizioni della carabina sono ridotte a soli due proiettili; cerco di custodirli gelosamente per qualche grave occasione, perciò è impossibile procurarsi qualche anatra o viscaccia, ma ci sono le pecore. Ecco, ne accoppiamo una provando così un altro eccellente tipo di arrosto.
Buttiamo ai margini del campo le interiora della bestia uccisa ed esse, durante la notte, attirano nei pressi del campo un gruppo di cani randagi arrivati da chissà quale parte della “puna”. È un grosso inconveniente: le bestie, sentendo l’odore del nostro accampamento, lo circondano dandosi ad un noioso concerto a base di guaiti, ma così noioso, così noioso, da non lasciarci chiudere occhio fino a quando, esasperato, esco dalla tenda con la carabina e vedendo vicino alla tenda magazzino una forma nerastra che ringhia rabbiosamente, la prendo di mira. Un guaito più forte e una breve fuga delle maledette bestie che continuano col loro lugubre concerto. Questa volta però entra in azione Merendi con l’artiglieria pesante: Romano spara razzi e bengala che illuminano a giorno tutta la valle mettendo in fuga i cani. Credo che non si siano spaventati solo i cani, ma anche i puma e i gatti selvatici: quanto agli indio, è naturale che abbiano osservato la cosa con la più grande indifferenza.
Durante l’ultimo scorcio di tempo, un forte dolore mi aveva preso al ginocchio sinistro, uno strappo muscolare che si fa sentire. Cerco con tutti i mezzi di curare questo inconveniente durante il breve soggiorno al campo base: se c’è d’andare al Chupiorjo vorrei far parte della comitiva.
Sembra che il tempo si rimetta al bello e questa mattina è bellissimo: a mezzogiorno arriva al campo il governatore di Trapiche, villaggio lontano una ventina di chilometri. Il personaggio è scortato da due guardie frontiere; ci portano dei cavalli e in loro compagnia festeggiamo con un buon pranzo e del cognac le nostre imprese. I tre arrivati accettano tutto dicendo sempre «mui rico… mui bueno…». Finalmente della gente che parla e che sorride, era parecchio che non si faceva quattro chiacchiere con dei forestieri; in quanto al cognac, i tre hanno dimostrato di avere un certo entusiasmo: in breve una bottiglia sparisce nei loro stomachi.
All’indomani, col tempo ritornato definitivamente bello facciamo i preparativi per avvicinarci alla nostra ultima montagna. Lasciamo il campo base in cinque: io, Sterna, Mellano, Merendi e Zamboni. Abbiamo sette cavalli: cinque servono a noi e due per trasportare il materiale, ci segue anche un piccolo portatore indio a piedi per prendere in custodia i cavalli quando li lasceremo. L’indio, grande camminatore, ci segue a piedi nudi con le tasche della giacca piene di foglie di coca, è il suo alimento preferito e gli darà forza e fiato per percorrere di corsa molti chilometri.
Cavalchiamo strani animali, ma oramai siamo abituati alle loro bizze: a turni veniamo sbalzati di sella, ma presto gli animali si ri-addomesticano. Il più comico è Sterna: il suo mulo, stranissimo, se ne va dove vuole, senza obbedire alle grida del suo padrone, portandolo in lungo e in largo dove crede per rientrare più tardi nel gruppo.
La cavalcata è lunga e faticosa, nonostante l’ilarità della comitiva: superiamo un colle chiamato sulla carta col nome di Jscaycruz, un colle di 5.300 metri circa; poi giù in una valle stretta e selvaggia seguendo il percorso di un torrente la cui acqua scende nel grande bacino dell’Amazzonia per sbucare nell’Atlantico. Il posto in cui ci troviamo è uno dei più remoti: lontano dalla capitale del Perù, lontano dalla capitale della Bolivia e lontano anche dalle maestose foreste amazzoniche.
Più avanti sopraggiunge la nebbia, più tardi nevica, ma è una sfuriata.
A mezzogiorno ci fermiamo all’imbocco di un’altra valle, a quota 4.300 metri: qui ci sono due o tre case di pietra. Sulla cartina della zona si legge il nome di Azienda Lusuni e poi una valle con un ricco torrente dal nome di Occorruruni.
Ci fermiamo nella zona per una breve colazione a base di arrosto di pecora, guardando in giro, dietro ai piccoli muretti di pietra che circondano le abitazioni, notiamo dei berretti che fanno capolino rimanendo immobili: veniamo a sapere dal portatore che gli abitanti del luogo ci osservano in preda al terrore. Ci guardiamo in faccia l’un l’altro, ammettiamo di avere un brutto aspetto, con una folta barba, vestiti coi nostri giubbotti a piumino colorati e con le piccozze e i bastoncini da sci fra le mani, sembriamo naturalmente dei disperati armati di chissà quali micidiali propositi.
Osserviamo, da dove siamo seduti, una donna fuggire da un muretto per mettersi al riparo dietro ad un altro più alto: la inseguiamo e la catturiamo. Il nostro portatore la sottopone ad uno stretto interrogatorio in lingua “chequa”. Sono tre parole la risposta, tre parole soltanto molto confuse, dette da una persona in preda al terrore: che noi siamo degli esseri mostruosi, dei condannati a girare per le montagne in cerca di gente per levargli il fegato e mangiarglielo.
Le assicuriamo invano che siamo dei pacifici “mangiatori” di montagne, non dei cannibali, offrendole anche caramelle e biscotti: li prende, ma il suo ringraziamento è una precipitosa fuga.
Risaliamo la valle dell’Occorruruni, stretta ed orrida, più avanti si fa larga diventando sempre più bella e quasi al suo termine offre una grande radura: davanti a noi stanno ora enormi bastionate di roccia. Più a sinistra, una seconda valle porta, a nostro parere, alla base della nostra montagna.
Il tempo ritorna ad essere brutto, verso mezzogiorno si mette a nevicare seriamente.
Ad un certo punto il nevischio è così fitto da levar completamente la visibilità: i cavalli, dal loro canto, non ne vogliono più sapere di proseguire.
Leviamo il carico dalle selle delle bestie, e, affidato all’indio la loro custodia, gli diciamo di portarsi in fondo valle dove esiste erba per le bestie e dove può trovare un riparo per lui.
Trasportando il carico sulle spalle, raggiungiamo il colle.
Non nevica più; esce subito un pallido sole, ma si fa sentire un vento gelido e fastidioso. Piazziamo le tende sul colle completamente allo scoperto, sotto incessanti raffiche di vento: a 5.250 metri, segna il Confine del Perù con la Bolivia.
Più tardi Zamboni, nell’uscire dalla tenda, si imbatte in un indio accompagnato da un gruppetto di lama; a piedi nudi sulla neve con la faccia stralunata dall’effetto della coca che sta masticando, il povero uomo, trovandosi di fronte ad un uomo molto alto con una folta barba incappucciato nel pelo di volpe, credendo di avere a che fare con un essere mostruoso, si dà a precipitosa fuga, seguito dalle sue bestie. Che Zamboni assomigli stranamente all’uomo delle nevi è la pura verità, ma che l’Indio si spaventi tanto per così poco, sta a dimostrare che noi siamo davvero i primi forestieri che battono questa strana zona.
Alle cinque del mattino lasciamo il campo leggero incustodito. Il nostro cammino si dirige sul fianco settentrionale della montagna: al termine di una fascia rocciosa, attacchiamo una spina ghiacciata alternata da platò di neve farinosa. Da uno di essi osserviamo che, per raggiungere la vetta del colosso, occorre passare da un’altra cima, poi scendere un colle per affrontare direttamente la becca terminale.
Alle nove siamo impegnati su un altro ghiacciaio.
Come al solito siamo divisi in due cordate: io sono con Sterna e Zamboni è con Mellano e Merendi. Superiamo un ripido muro di ghiaccio e su questo veniamo avvolti dalle prime nebbie che ci levano la visione della via da seguire. Ci fidiamo dell’intuito, dal basso abbiamo studiato il percorso nei suoi partico lari: perciò la strada da seguire è incisa nelle nostre menti.
La prima punta, di 6.000 metri esatti, è raggiunta poco dopo. Vogliamo chiamarla col nome di “Nevado Angelicum”, poi giù verso il colle. Si è messo a nevicare e il nevischio è accompagnato da raffiche di vento da togliere il respiro. Scesi al colle che divide la cima conquistata dalla vetta del Chupiorjo, ci concediamo una breve sosta per decidere sul da farsi. Ora sarebbe ridicolo rinunciare alla conquista, tanto più che siamo proprio sotto alla cima, ma ci sono ancora trecento metri di dislivello da superare resi difficoltosi dalla brutta qualità della neve e dai grandi crepacci che tagliano la cresta. Ecco la vera pulce nell’orecchio, il grande crepaccio sarà facilmente aggirato? Per accertarci riprendiamo ad andare avanti fra la tormenta, alternandoci sempre per rendere la marcia meno faticosa.
È un proseguire lento, sprofondando nella neve fino al ginocchio, respirando a fatica, ma sentiamo che ci alziamo sempre più verso la vetta. Eccoci alla temuta crepaccia, la riconosciamo da come è fatta; è facile da aggirare anche se dobbiamo allungare il cammino: un altro ripido pendio ed eccoci sotto un muro verticale. Davanti a noi ora sta soltanto il becco diritto che porta sulla cima. Dobbiamo affrontare questo ultimo ostacolo di ghiaccio direttamente: è Sterna che si fa avanti e avanza a colpi di piccozza intagliando gradini, uno dopo l’altro. È un lavoro estenuante, reso difficoltoso dalle forti raffiche di vento che coprono di neve fresca i gradini intagliati. Ultimi colpi di piccozza, un paesaggio dantesco e quindi sbuchiamo sulla vetta: fra la nebbia, coperti di neve, ci abbracciamo felici.
Ora le nostre bandierine non garriscono più al sole, come sulle altre cime, ma sventolano sferzate dal vento gelato sul Nevado Chupiorjo conquistato: sventolano a 6.300 metri di altezza.
Rimaniamo pochissimo sulla cima, poi, con una corda fissa, scendiamo il becco fino alla crepaccia più in basso: il percorso è introvabile, la neve portata dal vento ha cancellato tutte le nostre tracce, ma ora è impossibile sbagliare. Risaliamo la cima del Nevado Angelicum e scendiamo lungo la cresta di salita. Durante questa penosa discesa forti fitte mi prendono al ginocchio sinistro rendendo la mia marcia simile a un supplizio. Quando siamo sulle roccette esce, come per salutarci, il sole e, accompagnati dal suo ultimo beffardo raggio raggiungiamo le nostre tende sepolte dalla neve.
La notte passata al colle in attesa dell’alba è freddissima, anzi la più fredda da quando sono in questi luoghi, il termometro credo si aggiri sui trenta gradi sotto zero: tutto è gelato, specie gli scarponi che, per essere calzati, devono essere sgelati sulla fiamma del fornello a gas.
Al mattino, quando spiantiamo il campo, i raggi del sole ci fanno rivivere, ma il cielo non è bello, segno che ora non possiamo più contare su giornate stabili, ma ci consoliamo, abbiamo fatto tutto: il programma è stato rispettato, anzi con qualche ascensione in più.
Scendiamo col carico sulle spalle fin dove vi sono i cavalli, poi rifacciamo il percorso verso il campo base. Raggiungiamo l’Azienda Lusani e su per la tetra valle che porta al colle di Jscaycruz.
Si è messo a nevicare con impegno: la cavalcata diventa un supplizio, sul dorso dei cavalli che, scossi da brividi di freddo, avanzano a fatica. A volte per scaldarci scendiamo, ma io devo montare subito in sella perché il ginocchio mi fa terribilmente male.
Verso le tre del pomeriggio il colle di Jscaycruz è valicato. Ora dalla gialla “puna” siamo passati a una sconfinata distesa bianca con le montagne che fanno corona, anch’esse candide. Il paesaggio è diventato triste e monotono nascondendo tutti i colori. L’unica nota, o meglio l’unico contrasto è dato dagli immensi gruppi di alpaca che si aggirano in cerca di pascolo. Anche i cavalli hanno fame, dobbiamo fare delle soste dove si pensa di trovare erba, ma è un magro pasto il loro. Poi avanti; a sera scendiamo l’ultima china che porta sopra il campo base. Frigieri e Magni ci accolgono calorosamente con la cena pronta: è un vero ristoro, poi ognuno nella propria tenda per il meritato riposo.
Ora non c’è più niente da fare: le nostre scorribande sono finite. Lo scopo della spedizione .si può dire portato a termine con buonissimi risultati: non rimane che spiantare tutto e raggiungere il villaggio di Trapiche con il materiale avanzato. All’indomani grande movimento al campo, si comincia a spiantare qualche tenda e a preparare qualche carico. Bisogna raggiungere Trapiche per reclutare indio e lama per il trasporto del materiale. Ci dividiamo in gruppi: i primi a lasciare il campo base definitivamente siamo io, Sterna e Zamboni. Non abbiamo muli, ma cavalli.
Lo strato di neve che copriva la “puna” si è sciolto e il cielo è tornato ancora azzurro. Sterna fa da battistrada, mentre io e Zamboni chiudiamo la colonna; oltre a un leggero zainetto, tengo sulle spalle anche la carabina scarica, ma con l’ultimo proiettile in tasca.
La marcia prosegue ordinata e tranquilla.
«Questi non sono quegli strani muli di un mese e mezzo fa» dico a Zamboni, «se avessimo avuto quei muli a quest’ora tutto sarebbe rovesciato e disseminato per la prateria».
Non sono ancora passati dieci minuti che un cavallo selvaggiamente si libera dal carico mandando tutto per aria. In breve tutti gli animali spaventati si danno a precipitosa fuga perdendo tutto quanto tenevano sulla schiena. Ci guardiamo in faccia sgomenti: siamo stati ancora beffati, siamo soli, col materiale sparso qua e là. Zamboni a tutta corsa insegue subito una bestia, Sterna ne insegue un’altra, mentre io, zoppo per il male al ginocchio, cerco di ricuperare i barili e i sacchi che contengono il materiale: dopo una vera faticaccia tutti i colli sono riuniti in un mucchio.
Lontano nella “puna”, posso osservare il comico inseguimento di Sterna: il cavallo lo lascia avvicinare ad una decina di metri e poi fugge ancora per ripetere lo stesso scherzetto poco dopo. Di Zamboni nemmeno l’ombra. Poco dopo il mio cavallo torna sui suoi passi, come se si fosse pentito si presenta mesto mesto come se chiedesse perdono. Tutta la mia rabbia, tutte le mie promesse di legnate nei confronti delle bestie sono esaurite: lo accarezzo sul collo tenendolo ben saldo per la briglia, frattanto sta giungendo Sterna con un animale catturato. Carichiamo una parte del materiale sui due cavalli e consiglio l’amico di recarsi da solo a Trapiche, accompagnando le due bestie in cerca di aiuto: io rimarrò qui in attesa di Zamboni o del suo ritorno.
Sterna mi saluta e se ne va seguendo la traccia di sentiero che dovrebbe portare a Trapiche. Adesso sono davvero solo ed essendo pomeriggio inoltrato occorre prepararsi per passare la sera: ho dei buoni indumenti nello zainetto, qualche pezzo di cioccolato e niente altro, ma questo non mi preoccupa, quello che mi tormenta un poco è il fatto che se arrivasse un puma e io stessi dormendo beatamente, sarei spacciato. Col materiale faccio una specie di nicchia e mi sdraio, come se fossi in una trincea, in attesa di eventi.
Quando si è soli in un ambiente come questo si ha paura di tutto e si pensa a tutto. Mi agito un po’, poi m’impongo di essere calmo, in fondo ho la carabina, meno male che l’ho portata con me e che ho conservato il proiettile; forse è meglio metterlo addirittura in canna: frugo nella tasca in cerca della cartuccia, ma non c’è, la cerco nelle altre numerose tasche, ma non la trovo: l’ho persa!!… Tutto il mio ritrovato coraggio si muta di nuovo in sacrosanta paura. Non pensando due volte alle cose, prendo un foglietto, ci scrivo sopra delle indicazioni per Zamboni e lo lascio sulla punta di un bastoncino da sci piantato per terra, poi, con tutte le mie energie, mi metto ad inseguire Sterna sulla traccia che porta a Trapiche. Fatti i primi passi sento gridare da un’altura, è Zamboni che mi chiama, mi fermo immediatamente aspettando con gioia il suo arrivo.
Zamboni è tornato con due cavalli e con portatore: dividiamo ancora i colli e ricarichiamo i cavalli tenendo anche un leggero carico per noi; quindi riprendiamo la marcia e raggiungiamo Sterna. Ora la nostra marcia, ostacolata dalle tenebre e su un percorso per la maggior parte paludoso, diventa sempre più massacrante.
Dopo qualche giorno siamo nuovamente ospiti di Pena Prado a San Antonio di Poto. Stasera finalmente posso dormire in un letto.
In questo luogo rimaniamo tre giornate, un po’ per riposare e anche per sistemare le ultime faccende. Frattanto Zamboni, instancabile, Frigieri e Magni con una camionetta raggiungono i piedi di una montagna abbastanza vicina, piazzano una tenda e il giorno dopo la scalano. Una nuova cima di 5.800 metri viene ad arricchire il bottino della spedizione.
Diciannove sono le cime conquistate nella Cordigliera di Apolobamba fra cui otto superiori ai 6.000 metri e il resto poco sotto, cioè tutte le cime più importanti del gruppo, rilevandone l’altezza: sono stati segnati i colli e i ghiacciai e perfino i laghetti. Il sapiente lavoro di Merendi ha fornito la prima completa cartina del luogo.
Ora la nostra fatica alpinistica è finita e decidiamo di dedicare le giornate al turismo.
Un mattino, per una strada polverosa che corre sull’altipiano, raggiungiamo l’abitato di Ayaviri: una piccola cittadina, a 3.800 metri di altezza. C’è gran festa e nel pomeriggio ci sarà una corrida. Da queste parti si possono vedere delle strane arene di pietra, con gli indio seduti sui muretti ad applaudire il torero alle prese, spesso, con una mucca.
L’arena di Ayaviri è di quelle belle: con gradinate e una piccola tribuna di legno riservata alla banda.
Molta baraonda all’ingresso, poi, finalmente, un po’ di musica: la banda esegue l’inno del Perù, la folla si fa silenziosa e rimane religiosamente in piedi, poi l’altoparlante, con nostra grande sorpresa, annuncia che sono presenti fra la folla gli alpinisti italiani. Un caloroso applauso accompagna le ultime parole: siamo tutti commossi, io in special modo. Oggi, 20 luglio, compio ventotto anni. Lo dico a Frigieri: questo è forse il più originale dei miei compleanni.
La corrida è comica, molto comica, gente che urla quando vede il torero che, a parere mio, è terrorizzato dalla presenza del toro: gente che grida in coro «olè» quando il torero, tutto tremante, fa qualche scherzetto davanti alla bestia, ma, quando l’animale viene colpito con la spada e non cade morto, la cosa più comica è data dalla folla che grida in coro chiamando il macellaio della città per uccidere l’animale.
È ridicolo, ma avviene proprio così. Dopo il rifiuto da parte del torero di ammazzare una bestia in condizioni menomate, ma credo più per la paura, ecco avanzarsi il macellaio della città: va tranquillamente verso il toro e lo accoppa.
A Cusco, antica e favolosa capitale incaica, vado a visitare il museo archeologico. Ci sono delle strane mummie conservate ancora nei loro indumenti di cotone o di vimini, ci sono anche teschi umani con dei piccoli fori quadrati. Vengo a sapere, dal guardiano del museo, che gli Incas erano usi fare la trapanazione del cranio quando uno si sentiva anche un semplice mal di capo.
Che cosa usavano per questi interventi chirurgici? Non lo so! Ma osservando le loro armi, la maggior parte di pietra, si possono vedere anche delle piccole lame o temperini d’oro: forse erano i bisturi del chirurgo.
Ci sono poi una infinità di frammenti di vasi e recipienti: gli Incas erano molto progrediti anche in questa arte ed usavano adornarli con una pittura che si avvicina a quella astratta.
Le giornate purtroppo hanno termine, ci sarebbe ancora tanto da vedere, ma è impossibile: dobbiamo rientrare a Lima.
Qualche giorno dopo, a bordo di un DC-6, sorvoliamo la Cordigliera delle Ande per raggiungere la capitale del Perù. Quello che si vede dall’aereo è un paesaggio bruciato dal sole: montagne brulle e numerose e profonde vallate incastrate in gole aride e desertiche, poi, più avanti, vicino alla costa, il deserto pianeggiante e quasi bianco, infine un enorme banco grigio di nebbia. Sappiamo che lì sotto c’è Lima. Infatti poco dopo, in un clima umido e nebbioso, atterriamo all’aeroporto della città.
Grandissime accoglienze troviamo al nostro ritorno, ma quello che più mi fa piacere è che, appena sceso dalla macchina, incontro un amico torinese, alpinista lui pure.
Ci sono in Perù altre due spedizioni italiane: una comasca capeggiata da Luigi Binaghi che ha operato nel Vilcanota conquistando 11 cime, l’altra torinese, operante sulla Cordigliera Blanca, ha conquistato cinque vette. Possiamo scambiarci le nostre impressioni, e mi sembra quasi di essere in una delle valli che sono poste sotto il nostro Monte Bianco.
I ricevimenti in nostro onore non si contano più, qualunque famiglia italiana cerca nel modo più cortese di averci ospiti e, sentendo nostalgia della madre patria, vogliono sentire tutto ciò che riguarda il nostro paese. Il più grande ricevimento avviene all’ambasciata italiana: numerosi sono i presenti, la maggior parte ambasciatori di altri paesi. Ricordo un colloquio col rappresentante del Giappone, lui parlava in giapponese, io un misto veneto-spagnolo, e tra un pasticcino e l’altro ci spiegavamo la differenza che passa fra le montagne europee, asiatiche e americane. Interessante, lo strano colloquio, ma l’unica parola che capii e che a mia volta dissi a chiusura della conversazione, è stata “claro”: significa che ci siamo capiti a perfezione.
Il giorno dell’imbarco è ancora lontano, perciò Frigieri si dà da fare per trovare dei mezzi di trasporto per andare a visitare le foreste amazzoniche lungo il Rio Ucayali. Un mio grande desiderio si sta avverando: entrare nelle immense foreste che sempre ho sognato.
Presto risorvoliamo le Ande a bordo di un altro aereo, voliamo a Nord di Lima, ai limiti della Cordigliera Blanca: infatti si vedono poco lontano le cime nevose e gli immensi ghiacciai, passando anche fra strette gole nascoste dalla nebbia. Poi l’aereo si abbassa sempre più fino a mille metri dall’immensa vegetazione che copre l’Amazzonia. Una enorme striscia verde nel mare verde ci indica la presenza del Rio Ucayali; questo fiume, quando si incontra col Rio Marañon, prende il nome di Rio delle Amazzoni: il fiume che stiamo sorvolando è quindi il maggior affluente del grande Rio.
Atterriamo prima su di una pista terrosa tracciata nella foresta: questa località è chiamata Bellavista, poi, con un altro volo, eccoci a Pucallpa, grosso villaggio posto sulle sponde del Rio Ucayali. ·
Anche questi indio, come quelli dell’altipiano, sono piccoli e hanno capelli neri, ma le loro usanze sono completamente diverse.
Gli abitanti di Pucallpa, essendo sempre a contatto con i bianchi, vivono in maniera decente, ma lungo il fiume numerose tribù di indio vivono allo stato selvaggio come se fossero ancora in epoca preistorica.
A Pucallpa, centro di raccolta di mano d’opera per il legno, esistono tre grosse segherie e tutti e tre i dirigenti sono italiani, molto giovani, due piemontesi e un veneto. Grande festa fra noi; abbiamo a disposizione una moderna palazzina con tanto di ventilatore, e anche un battello per risalire un poco il fiume e visitare i dintorni.
Percorrere un fiume così è una delizia: sembra di essere in un paradiso terrestre.
Sbarchiamo su un isolotto di sabbia finissima completamente deserto; mi fa pensare a certi luoghi dove ho letto che le testuggini si recano a posare le uova. Ci sdraiamo al sole per una buona cura; siamo in pantaloncini e non passa molto che un forte prurito si fa sentire lungo le parti scoperte del corpo. Gli amici italiani ci dicono di vestirci immediatamente perché siamo stati assaliti dalla “manta blanca”; sciami di moscerini invisibili che coi loro morsi producono un gran prurito. Così a sera torniamo alla palazzina in preda a strani movimenti quasi epilettici.
Qualche giorno dopo andiamo in un villaggio delle tribù Chamas. Raggiungiamo il villaggio con una canoa scavata in un tronco d’albero, ma con a poppa un fuoribordo, seguendo la corrente del fiume.
Durate la breve permanenza fra questa gente, facciamo amicizia con un gruppo di ragazze: amicizia costatami un cappello da uomo. Ci sono belle figliole. Sono piuttosto piccole e hanno capelli nerissimi tagliati a frangetta sulla fronte. Dimostrano buon gusto nell’adornarsi e nel vestirsi.
A differenza delle loro coetanee dell’altipiano che si tengono addosso per tutta la vita numerosi vestiti senza mai lavarli, queste chamas vivono quasi sempre nude riservando i vestiti alle grandi occasioni.
Il nostro arrivo deve essere stato un avvenimento, le ragazze sono vestite sfoggiando i loro costumi migliori: una stuoia nera, naturalmente di cotone, nasconde la parte inferiore del corpo, in quanto alla superiore indossano una cortissima camicetta molto colorata adorna di un grande collo spiovente sulle spalle. Rimane sempre scoperta la parte centrale del corpo, un po’ di pancia e un po’ di cassa toracica fin sotto ai seni. Sono molto pulite e usano lavarsi nel fiume due o tre volte al giorno: non so se lo facciano per rinfrescarsi o proprio perché sentano il bisogno di tenersi pulite.
Quando una ragazza arriva all’età di sposarsi, e se è bella i pretendenti sono molti, viene rinchiusa in una capanna appositamente costruita, viene fatta addormentare con del fumo, ed immobile aspetta che arrivi il candidato a svegliarla. I pretendenti, a loro volta, si recano nel centro del villaggio dove li attende il capo tribù. Nella piazza si trova un enorme tronco di albero abbattuto: messo in posizione orizzontale costituisce il campo di battaglia. I giovanotti, uno alla volta, cominciando dal più anziano, si sfidano a eliminazione, chi è capace di far cadere dal tronco tutti gli avversari, diventa marito della ragazza. Il vincitore si reca subito alla capanna, la sfascia, prende fra le braccia la sua sposa e fugge per un breve viaggio di nozze nella foresta: quando la ragazza si sveglia, riconosce per tutta la sua esistenza il prode guerriero come suo sposo.
Poco dopo la nostra visita ai Chamas lasciamo alle nostre spalle il regno dei rettili e degli uccelli per volare nuovamente verso la capitale del Perù.
Il 26 agosto lasciamo Lima per imbarcarci sulla Motonave “Marco Polo”, al Callao c’è numerosa folla per noi, peruviani e italiani di Lima. A sera la nave si stacca dalla banchina volgendo la prua a Nord, lasciando le luci della città sempre più lontane, dietro di noi. Confesso di essere assalito da una grande tristezza. Coraggio, ora bisogna pensare al viaggio di ritorno, e una crociera di 28 giorni sulla nave è degna di un pascià.
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