Chi fu il mio primo compagno di cordata ? Non lo so.
Sembra una cosa ridicola, eppure non lo so: di lui so soltanto che si chiamava Luigi, e con lui scalai per la prima volta la via normale del Fungo sulla Grigna Meridionale.
La faccenda era nata nell’estate del 1948. Allora andavo quasi tutte le domeniche in Grignetta: appassionato di montagna sentivo il desiderio di cimentarmi in scalate. Il fatto è che ero molto giovane e non riuscivo a trovare nessuno un po’ pratico di ascensioni che mi portasse con sé. Dal canto mio non potevo prendere alcuna iniziativa: ero completamente inesperto di roccia e di tecnica di alpinismo. Mi mancavano i mezzi finanziari, e per me era tabù comperare una corda; ma una domenica, avutane una fra le mani, mi recai confidente in Grignetta. Tenevo il mio trofeo in spalla, e questo mi faceva sembrare qualcuno; anzi mi sentivo già un alpinista. Ora avevo soltanto bisogno di un compagno, e, dato che io avevo la corda, speravo di trovarlo con facilità.
Davanti alla chiesetta notai un individuo molto alto, magro, pallido, impaziente, sembrava che aspettasse qualcuno. Anche lui si accorse della mia presenza (io avevo la corda…) e cominciò ad osservarmi con molto interesse. Incoraggiato dal suo sguardo, mi avvicinai.
“Sto aspettandq da un’ora il mio pompagno dicordata per poter scalare il Fungo, invece mi ha fatto un bidone” gli dissi.
“Anch’io” rispose “aspetto un amico che non si fa vedere.
Presi la palla al balzo, e, visto che i nostri fantomatici amici non si facevano vivi, decidemmo di scalare il Fungo.
Qualche ora più tardi siamo alla base,di questo nostro obiettivo: dobbiamo legarci. Chi farà il capo cordata? Come si farà a salire? Lui dice di essere un alpinista; speriamo che non lo sia come lo sono io…
Il mio amico era indeciso e pensierosio: forse pensava la medesima cosa. Lo guardo e con tranquillità dico: “Non preoc cuparti, sono un esperto di scalate; legati da capocordata così io dal basso potrò correggerti e darti dei consigli“.,.
E così avviene. Il mio capo cordata si alizava metro per metro tremando, mentre io mi affannavo ad incoraggiarlo e a dargli consigli. Dal mio canto, con un, pezzo di corda davanti, salivo veloce, come se fossi davvero un esperto. Sulla cima mi complimentai con lui dicendogli: “vedi, sei quasi come me“.
Ora si trattava. di scendere a corda doppia: io naturalmente non sapevo come si dovesse fare, ma per questo c’era sempre il mio compagno, lui almeno conosceva la tecnica della discesa. Piazzata la corda con fare esperto, gli dissi:
«Scendi prima tu, così io copro la ritirata».
Poco dopo anch’io comincio a scendere, sfruttando per imitazione la manovra ed i movimenti del mio compagno. Dopo qualche ora di avventure tragicomiche su quel pezzo di corda da bucato, raggiungemmo la base.
Da allora il mio primo compagno di cordata “Luigi” non lo vidi più.. Io continuai con altri compagni: finché ebbi la fortuna di inserirmi in un gruppo di rocciatori monzesi e di stringere subito amicizia con Josve Aiazzi, che più tardi doveva diventare il mio inseparabile compagno.
In breve arrampicai con sicùrezza da capo cordata, Più tardi feci la conoscenza di Walter Bonatti; lui era completamente digiuno d’alpinismo: lo invitai ad arrampicare conme, ed in poco tempo si dimostrò un rocciatore formidabile.’
Qualche mese dopo, sempre in compagnia di Walter e di Josve, avevo già scalato tutte le più difficili vie della Grignetta.
Questa montagna, con le sue ascensioni di 5° e 6° grado, era diventata il mio banco di prova; e vedendo che queste salite non mi impegnavano estremamente, cercavo vie sempre più difficili. I miei compagni, Josve e Walter, erano a mio pari armati anch’essi di forza e volontà.
Una domenica di maggio, per provare le nostre doti, ci mettemmo in testa di ripetere per la prima volta la difficilissima via Sant’Elia al Nibbio.
Ci riusciamo in breve tempo, tracciando anzi una nuova variante diretta: cioè invece di spostarci a destra sotto lo strapiombo.e di rientrare a sinistra sopra di esso, lo superiamo direttamente. Battezziamo il passaggio «lo strapiombo delle lumache», per averne trovate parecchie in fondo alla larga fessura.
La domenica seguente andiamo ai torrioni Magnaghi: vogliamo provarci definitivamente. Ci avventuriamo sulla difficilissima via Rochin aperta da Ercole Esposito: essa, data la compattezza della roccia e la grande difficoltà nel chiodare, aveva respinto tutti i tentativi dei migliori rocciatori della Grigna.
Fu una scalata estremamente seria; la chiodatura era per me in quel momento un lavoro molto complicato, ma mi andò bene. Pianto tre chiodi poco sicuri in tre piccoli buchi, ci assicuriamo, tutti e tre, e per proseguire facciamo su quei tre chiodi una piramide umana di tre persone. Siamo così “delicati” in questa manovra da non muovere un solo chiodo. La vetta è raggiunta in sole sette ore.
Sento ora di essere tecnicamente preparato per pareti ancor più impegnative. ;
Ma sono abbastanza esperto? Credo di no. So solo di avere una forza eccezionale: L’esperienza l’acquisterò col tempo.
Il mio primo obiettivo è la parete Sud del Croz dell’Altissimo.
Ne avevo sentito parlare con molto rispetto: si trova nelle Dolomiti di Brenta, e piomba vertiginosa per 1.100 metri, sulla testata della Valle delle Seghe. Questa parete aveva respinto per decenni tutti i tentativi dei migliori alpinisti trentini, finché la cordata composta da Oppio, Colnaghi e Guidi, tutti rocciatori lombardi, riuscì a superarla in quattro giorni.
La massima difficoltà consisteva in una placca di trentacinque metri, posta a trecentocinquanta metri dalla base e che richiese a Oppio e compagni, una giornata e mezza di durissimi sforzi.
E questa è l’impresa che volevo tentare. L’idea si era così fortemente radicata in me da diventare quasi un’ossessione. Ma le 84 ore passate in parete dai primi salitori rappresentavano per me qualcosa di più delle brevi arrampicate in Grignettà; questo mi turbava parecchio; ce l’avrei fatta?
In compagnia di Josve Aiazzi e Walter Bonatti, lasciai Monza un pomeriggio, per raggiungere Madonna di Campiglio.
Raggiungiamo il rifugio Brentei sotto una gelida pioggerella. Quella notte ci toccò dormire nel solaio: il rifugio era zeppo.
Il giorno seguente ci portiamo al Pedrotti: qui una visione stupenda ci affascina e ci sgomenta; la grande parete Sud del Croz dell’Altissimo è lì di fronte in piena luce con tutta la sua imponenza. Ammirandola mi smarrisco; è la prima vera grande parete della mia vita.
Una guida locale, conosciuto il nostro programma, ci dà consigli e ci augura buona fortuna. La ringraziamo e proseguiamo per la nostra strada; a tarda sera siamo al rifugio Selvata. Stanchi per il lungo cammino ci ritiriamo nelle nostre cuccette.
Alle due del mattino successivo sveglia e partenza: ci accompagna l’amico Giulio Viganò, che avendo assistito alla prima ascensione ci fornisce utili indicazioni: alle 5 e 30 siamo all’attacco.
Salutiamo il nostro accompagnatore e iniziamo la scalata per una cengia erbosa che porta al centro della parete. Attacco prima un camino alto 5 o 6 metri che richiede subito l’uso dei chiodi e, mentre sono impegnato, piomba a valle una valanga di sassi: appiattiti contro la roccia, attendiamo che la scarica sia passata. La montagna ci ha inviato il suo saluto mattutino. Non lo abbiamo molto gradito.
Arrampichiamo per tutto il giorno su una serie di fessure e camini, di roccia tonda e difficile, sino a che giungiamo alla base della famosa placca; qui in posizione scomoda ma sicura prepariamo il nostro primo bivacco. Passiamo la notte seduti. Siamo stanchi, non per l’arrampicata, quanto per la lunga marcia di avvicinamento: abbiamo raggiunto Madonna di Campiglio in camion, abbiamo attraversato il gruppo del Brenta con madornali sacchi sulle spalle per raggiungere la parete; e, inoltre, questo è il mio primo bivacco in parete. Forse sarà l’emozione, o qualche cosa d’altro, certo che non riesco a prendere sonno: perciò mi metto a riflettere un poco sulla nostra situazione. Finora tutto è andato nel più liscio dei, modi ma c’è un inconveniente, i sacchi… sono troppo pesanti per una salita del genere. Tirarli su con la corda costa uno spreco inutile di energie; portarli sulle spalle come si fa? Comincio a capire che il materiale ed i viveri, per questa nostra prima esperienza su una lunga e difficile ascensione, sono troppi. Infatti abbiamo con noi la bellezza di 180 metri di grossa corda di canapa, 60 moschettoni, 60 chiodi, e i viveri. Nientemeno che 8 litri di the, tre chili di zucchero, tre chili di prugne secche, carne, pomodori, cioccolato ed altro, compreso gli indumenti che sono residui militari della guerra 1940/45. Tutto questo lo dobbiamo portare sulle spalle anche in arrampicata.
Nel silenzio della notte ogni tanto alzo lo sguardo per scrutare nelle tenebre la placca che ci sovrasta, fredda e repulsiva, chiusa in alto da un piccolo soffitto.
All’alba partiamo: attacco la placca deciso a passare a tutti costi; la roccia è.molto compatta, salgo lentamente piantando dei chiodi poco sicuri entro piccoli buchi. Solo dopo un delicatissimo passaggio riesco a piantare un chiodo veramente buono sul quale mi alzo trovandone un altro lasciato dai primi salitori: ora mi è possibile far salire Bonatti presso di me. Quando Walter è sicuro sui chiodi di fermata riprendo la salita sull’altra metà della placca. La roccia è diventata ancora più compatta, gli appigli sono rarissimi. Noto una fessura superficiale; vi appoggio un chiodo che però al primo colpo di martello schizza via; un secondo segue la stessa sorte; il terzo va meglio pur entrando solo pochissimo; questo per me è sufficiente, poiché le forze stanno esaurendosi: è quindi con un sospiro di sollievo che aggancio il cordino di sicurezza. Poco più in alto mi trovo alle prese con il soffitto, lo devo aggirare verso sinistra chiodandolo dal di sotto: guardando verso il basso vedo una serie di chiodini a 30 centimetri di distanza l’uno dall’altro, credo che si sarebbero sfilati tutti come turaccioli al primo piccolo strappo.
Comincio ad essere stanco di questa placca… da 6 ore sono alle prese coi suoi trenta metri é non ha nessuna intenzione di cedere. Alla fine un chiodo un po’ più sicuro mi ‘permette un momento di riposo. Dopo aver superato ancora una liscia paretina, raggiungo finalmente un piccolo ballatoio.
Ora sono finalmente a posto; i miei compagni, mi raggiungono molto velocemente, e così dopo sette ore di estenuante fatica ci troviamo riuniti sopra il delicatissimo passaggio.
Siamo tormentati dalla sete, ma non per questo meno decisi a proseguire là nostra salita: continuiamo per altri 100 metri relativamente facili, quando, tutto ad un tratto, si scatena un,temporale con tuoni e grandine ed acqua in quantità. Se non altro possiamo, almeno dissetarci un poco senza dar fondo alla nostra riserva di the. Col ritorno del bel tempo riprendiamo l’arrampicata, saliamo veloci, man mano che ci innalziamo le difficoltà riprendono, Infiliamo lunghi– colatoi che superiamo in pressione: usiamo questa tecnica data la caratteristica conformazione della roccia; essa è formata da bugne tonde, perciò le mani fanno poca presa. A 250 metri dalla vetta installiamo il nostro secondo bivacco, In confronto al primo è veramente comodo; la sete però ,ci tormenta e, a tratti veniamo presi. da brividi di freddo; perché il tempo sia più veloce nel passare, cantiamo.
All’alba siamo di nuovo pronti; siamo sempre più assetati ma decisi a farla finita. Saliamo disperatamente, quasi di corsa, verso rocce finalmente più facili: ma la cima è ancora lontana; il bosco sottostante è diventato molto piccolo; il vuoto sotto di noi è impressionante: oltre 1.000 metri. Finalmente, dopo qualche altro tratto di corda, la vetta è raggiunta, Un commosso abbraccio suggella la nostra vittoria. Riordiniamo velocemente i nostri attrezzi e poi precipitiamo per la lunga, ma facile discesa, alla ricerca di acqua. Troviamo finalmente una pozzanghera calda, verdognola, con muffa, ma tanta è la sete che beviamo fino a saziarci. Proseguiamo la discesa su Molveno, e a sera sprofondiamo in soffici letti sognando naturalmente la nostra prima riuscita in una ascensione “importante“.
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