le mani sulla roccia

Finisco di ripetere Cassin

L’anno 1950 lo inizio allenandomi in Grignetta; sento di essere molto migliorato nella tecnica e nello stile. Infatti sulle stesse vie salite in allenamento l’anno scorso, mi trovo molto più a mio agio, mi stanco meno e mi sembrano perfino facili.

Però l’anno è cominciato sotto cattivi auspici, Emilio Villa, mio compagno di tante scalate, cade dalla via Comici ai Corni del Nibbio. La sua tragica fine mi lasciò abbattuto e smarrito. Per superare lo choc la domenica seguente vado proprio alla via Comici per ricostruire l’accaduto a modo mio, e per vincere un certo timore che sta per impadronirsi di me.

Continuo senza interruzione i miei allenamenti, resi però saltuari dal persistente cattivo tempo, quando arriva giugno. Non si può proprio dire che io sia allenatissimo, tuttavia, con Luigi Galbiati, mi porto nelle Dolomiti, e precisamente alle tre Cime di Lavaredo, ove compio una salita dello spigolo Mazzorana sulla Cima Grande.

Qualche giorno dopo, sempre con Galbiati, salgo sulla Cima Piccola per lo Spigolo Giallo. Anche qui, una persistente pioggerella ci accompagna durante la discesa. Matura il desiderio di portare a termine la ripetizione di un altro grande problema risolto da Cassin (n.d.r. Riccardo Cassin, leggenda dell’alpinismo): la parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo.

Se ce la farò, sarò il primo alpinista che abbia ripetuto i tre grandi itinerari di Cassin: la Nord-Est del Pizzo Badile, la Walker alle Grandes Jorasses e la Nord della Cima Ovest di Lavaredo. Vorrei completare la triade in fretta, prima di entrare nel mio ventesimo anno di età.

Così vado alla forcella Lavaredo per esaminare da vicino la famosa parete. Ritorno. dall’esplorazione alquanto impressionato, quella visione di continui strapiombi e tetti gialli non è certo fatta per tranquillizzare il mio spirito; malgrado tutto mi dispongo a tentare.

Rientrato a Monza, non mi ci vuol molto a convincere l’amico Aiazzi, e con lui riparto quindi per Misurina. Il giorno dopo, carichi delle nostre attrezzature, giriamo la forcella Lavaredo, costeggiamo quindi gli appicchi Nord della Piccolissima, della Frida, della Piccola, della Grande e infine quello più severo della Cima Ovest. Legatici, iniziamo l’arrampicata lungo lo spigolo Ovest. È giallastro, un poco friabile; proseguiamo per circa 200 metri fino al punto in cui ha inizio la famosa traversata.

L’affronto tenendomi il più aderente possibile alla parete; coi piedi su una minuscola cengia avanzo centimetro per centimetro; con la testa faccio pressione contro il soffitto che mi sovrasta. Dopo una decina di metri, avanzando senza l’aiuto di chiodi, la cengia finisce, e sotto di me, con enormi tetti, la parete strapiomba con un salto nel vuoto di 250 metri. In questo punto per una buona mezz’ora lavoro accanitamente per arrivare a un chiodo, ma quando l’ho raggiunto mi resta fra le mani: sono costretto a calarmi nel vuoto per 5 o 6 metri fino a una seconda piccola cengia molto friabile.

Proseguo verso il centro della parete aggrappandomi con le mani al bordo della cengia e puntando la punta delle pedule contro la roccia: più tardi, con un sospiro, di sollievo, raggiungo un friabilissimo posto di sosta. Qui per maggiore precauzione pianto due chiodi di sicurezza.

Ora tocca al mio compagno; Josve parte sicuro, arrivato al famoso chiodo, è costretto a un pendolo volontario per raggiungere la cengia più bassa. Il pendolo funziona a dovere, ma la corda di 12 millimetri si Impiglia in uno spuntone. Per liberarsi l’unica soluzione in quel frangente è di slegarsi dalla corda impigliata. Così Josve avanza lungo la cengia tenuto soltanto dalla corda di 10 millimetri. Improvvisamente le mani del mio compagno di cordata staccano un appiglio: lo vedo prima sbilanciarsi, poi cadere nel vuoto.

Il colpo della corda sui chiodi è secco, ma riesco ugualmente a tenerli: Josve rimane a pendolare nel vuoto, fin quando riesco a buttargli la corda di 12 millimetri. Aggrappato ad una delle funi, mentre io ritiro l’altra Josve mi raggiunge, giunto al mio fianco, prima ancora di tirare il fiato: mi investe:  “Cos’hai da fare quella faccia da funerale? “. Però anche lui cambia subito colore quando, senza parlare, gli mostro la corda che l’ha trattenuto e che l’ha aiutato ad arrivare sul terzo terrazzo: è tranciata a metà. Sbianca involto ancor più quando si accorge che i chiodi che hanno tenuto il suo strappo uscivano alla semplice trazione della mano.

L’unica reazione in casi simili è l’azione. Se ci si pensa su, non si va più avanti. Riprendiamo dunque ad arrampicare, ma con maggior prudenza; più in alto giungiamo ad un breve passaggio obliquo, estremamente difficile: mi impegna per una buona ora obbligandomi ad accaniti sforzi per raggiungere un vecchio chiodo.

Su questo breve tiro di corda provo anch’io la spiacevole sensazione di un piccolo volo, per fortuna senza conseguenze. Alle 18 siamo finalmente .su una larga cengia al termine della famosa e temuta traversata e ci mettiamo al riparo sotto un enorme tetto.

Prima di raggiungere questo posto abbiamo dovuto attraversare un colatoio scrosciante acqua. Ci assale subito il freddo. I muscoli sono intorpiditi, le corde inzuppate; decidiamo di bivaccare. Il bivacco non è dei migliori, continui dolori ai muscoli ci tormentano entrambi, dovuti forse all’allenamento piuttosto sommario.

Un amico, prima di partire ci aveva regalato un bel paio di pedule con la suola di cotone. Le pedule sono bellissime, ma in fatto di resistenza un po’ meno. Le suole si sono staccate completamente fin dai primi tiri di corda sulla traversata. Partita la suola il cartone sottostante si è scucito dalla tomaia e improvvisamente mi trovai con le sole calze. Riuscii a farci tutta la traversata. Sul terrazzo sono arrivato a piedi nudi, e me li sto guardando pensando all’indomani. “Ce la farò ad arrivare in cima? “. La roccia è dura e tagliente, le dita dei miei piedi no.

Alle nove del giorno dopo riprendiamo la scalata e, lungo Il colatoio, arrampicando a piedi nudi raggiungiamo la vetta. Ci accoglie un violentissimo temporale. Nello spazio. di poche ore cengie e terrazzi sono colmi di grandine. Il tutto con un contorno impressionante di fulmini. In quel momento provai tanta paura, come mai mi era successo. La via di discesa non è più visibile. La grandine ha coperto ogni traccia. Aiazzi, con filosofia, si mette alla ricerca di un posto di bivacco. Io, che sono senza sacco da bivacco e scalzo, non me la sento di affrontare una seconda notte in parete, ed essendo solo le due pomeridiane, sotto l’infuriare del temporale, decido di tentare la discesa. L’acqua cade furiosa, sono torturato dal freddo ai piedi; non mi rimane che rimanere in piedi a turno, con un piede prima e con l’altro dopo.

Qualche ora più tardi ci caliamo giù per una via qualunque, fra canaloni pieni di neve e grandine, e lungo cenge diventate infide. Dopo parecchie peripezie, raggiungiamo il ghiaione, ultimo, ma non meno formidabile ostacolo per i miei piedi già martoriati.

Anche l’avventura sulla via di Cassin sulla Cima Ovest di Lavaredo è finita. Una grande avventura, degna delle salite fatte in precedenza; infatti mi tornano alla mente le vie che portano Io stesso prestigioso nome di Riccardo Cassin: la parete Nord-Est del Pizzo Badile e lo sperone della Walker sulla parete. Nord delle Grandes Jorasses. Della splendida collana me ne mancava fino a ieri una: la parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo, oggi non più.

Ora mi sento fiero. di essere il primo alpinista che ha saputo ripetere tutte e tre le grandi vie, ma quello che mi rende più felice è come le ho salite. La totale mancanza di mezzi finanziari, la scarsa esperienza, l’equipaggiamento sommario: e la mia età? Non ho ancora vent’anni. Ma questo non vuol dire niente, mi sono servito soprattutto della mia resistenza fisica e della mia volontà, e più ancora della fortuna, che, anche nei momenti più paurosi mi ha sempre assistito.

Ora, ripetute le vie Cassin, penso ad un’impresa tutta mia, a tracciare una via nuova. La scelta cade sulla parete Ovest del Petit Dru nel gruppo del Monte Bianco, numerose volte tentata dai più esperti alpinisti stranieri.

Sono con me Luigi Castagna e Josve Aiazzi. Andiamo a Courmayeur e quindi saliamo al rifugio Torino. Al mattino, coi nostri sacchi, scendiamo al rifugio della Requin e, lungo la Mer de Glace, ci portiamo a Montenvers, proprio ai piedi della parete.

Il tempo è incerto, e la gente del posto ci dice che sta mettendosi decisamente al brutto. La risposta non è invogliante, ma non ci fa cambiare idea: cerchiamo con un potente binocolo di studiare la parete e di individuare il punto d’attacco.

Ci accorgiamo però che anche una cordata di alpinisti lecchesi aspettava da qualche giorno il tempo adatto per attaccare a sua volta. Non volendo metterci in concorrenza, decidiamo perciò di rinunciare al nostro programma, e più tardi, rifatta la Mer de Glace, raggiungiamo nuovamente il rifugio Torino.

Ora la nostra intenzione è di attaccare l’inviolata parete Est del Gran Capucin. Qui un periodo di nevicate ci fa rintanare in rifugio per parecchi giorni, ed essendo a corto di viveri, senza soldi, ci nutriamo esclusivamente di pomodori avuti in regalo da alcuni alpinisti che lasciavano il rifugio per scendere a Courmayeur.

Finalmente, dopo parecchi giorni, ritorna il sereno. Con Castagna, a sera, vado sotto la parete del Gran Capucin per studiare una possibile via da percorrere, e, soddisfatti, torniamo in rifugio decisi ad attaccare all’indomani.

Partiamo prestissimo dal rifugio, il tempo è nuovamente incerto; infatti poco dopo grossissime nuvole temporalesche sono sopra di noi. Sostiamo indecisi al colle des Flambeaux, e qui perdiamo parecchio tempo nel confabulare fra noi, quando con sorpresa vediamo passare i tre lecchesi che a loro volta hanno lasciato Montenyers con le pive nel sacco.

Già qualche fiocco di neve comincia a cadere. Castagna si sfoga in ingiurie poi, con decisione improvvisa, cambia programma e si mette in viaggio per le Dolomiti. Certamente là ci sono più probabilità di arrampicare. Io e l’inseparabile Josve continuiamo a discutere sul tempo; a volte sembra che il vento cambi direzione, ma la speranza di un bello stabile è svanita. Le ferie sono finite e per non tornare a casa senza nemmeno aver fatto una salita, ci portiamo nella stessa mattinata al Dente del Gigante decisi a salire almeno la parete Sud, vinta dai tedeschi Burgasser e Litz, ripetuta soltanto da una cordata valdostana.

Superata la “gengiva“, subito attacchiamo la parete. Arrampichiamo veloci usando parecchi chiodi. Il granito è freddo perciò siamo costretti più volte a soffiare sulle mani. Lungo il primo tiro di corda Josve si sente male: tutto ad un tratto diventa pallido, si ferma sulle staffe appoggiandosi alla parete e mi dice che la corda stretta intorno alla vita non gli dà respiro: allento il nodo e Josve si riprende in fretta.

Riprendiamo l’arrampicata come se nulla fosse accaduto. Una fitta nebbia grigiastra ci avvolge e veniamo subito colti da brividi. Fa freddo. Nevica. Siamo su un grande terrazzo in prossimità della vetta. Sopra di noi si alza un leggero strapiombo, molto friabile.

Assicurato dal mio compagno, tento di superarlo: mi alzo una decina di metri; qui lo strapiombo con le sue difficoltà si fa subito sentire. Cerco di superarlo direttamente, ma dopo una breve riflessione ritengo più opportuno attraversarlo a destra con la speranza di incontrare un passaggio meno ostile. Mi trovo invece alla base di un piccolo diedro molto levigato: data la critica posizione in cui mi sono messo tento di piantare un chiodo ma non trovo fessure.

Credo che sarebbe meglio riornare sotto lo strapiombo e quindi superarlo direttamente, ma mi trovo in una posizione così critica da non potermi muovere. Guardo in basso un po’ smarrito, l’ultimo chiodo piantato da me è a una decina di metri più sotto. Mi viene istintivo pensare alla lunghezza del volo se dovessi staccarmi: presto questo timore si impadronisce di me e cresce mentre il tempo passa e le forze si esauriscono.

Sento che sto per “volare“. Mezzo metro sopra la mia testa sporge, dal diedro, la sagoma di una placca rossastra: vorrei raggiungerla con un colpo di reni, ed attaccarmi, ma la placca è staccata dal granito, e se la tocco, un pauroso volo non me lo toglierebbe nessuno.

È forse più di mezz’ora che sono infognato in questo passaggio senza potermi muovere: le mie forze ora sono allo stremo, ma prima di lasciarmi inghiottire dal vuoto, giocherò l’ultima carta. Con uno sforzo raggiungo la placca, sperando, contro la mia stessa convinzione, che possa resistere al peso. Invece si stacca davvero portandomi nel vuoto… precipito … non so per quanti metri, ma il volo mi sembra non abbia fine.

Il mio cervello in quell’istante si mette a lavorare a ritmo cinematografico pensando infinità di cose, costruendo a modo suo la tragedia. Dopo il primo urto contro la roccia, quando ripresi a precipitare, pensai che Josve, strappato dal terrazzo, mi stesse seguendo, poi i successivi urti mi fecero pensare che per me non c’era più niente da fare, mi avrebbero trovato a pezzi alla base del Dente.

Poi, con urto strappo simile a uno schianto, mi fermo. Sono vivo, appeso alle corde, e dondolo nel vuoto: Josve mi ha tenuto.

La posizione in cui mi trovo è tuttavia critica: sono appeso a testa in giù, ma, non so come; riesco a ritrovare la giusta posizione. In µn attimo, salendo a forza di braccia lungo la corda, raggiungo il mio compagno sul terrazzo; Josve mi mostra Je sue mani, sono bruciate per l’attrito della corda durante il mio volo, e continua a guardarmi, incredulo di avermi nuovamente al suo fianco, incolume.

La reazione mi fa ridere, Poi riesco. a parlare: “Vedi, ho avuto fortuna, non mi sono rotto niente“. Josve pensava sì a qualche cosa di rotto: capivo che pensava alla corda. Se ciò fosse accaduto, il capitolo della mia vita si sarebbe chiuso alla base del Dente del Gigante. Non mi fermo sul terrazzo. Se non riattacco ora, non lo farò più.

Vado all’assalto dello strapiombo senza uso di chiodi, lo supero in brevissimo tempo. Sul terrazzo raggiunto faccio salire Josve, quando mi raggiunge è molto emozionato; la visione del mio volo fo ha scosso non poco. Lui, dal basso, ha visto tutto; ha visto il mio corpo passargli a fianco come una fucilata. Continua a nevicare, e questa neve bagnata mi mette nelle vene dei brividi di freddo. Mi fermo un poco sul terrazzo. Non mi sento in grado di continuare l’ascensione. Forse crollo. Ora mi sento un altro, mi sento debole ed incapace di proseguire. Un vivo dolore comincia a farsi sentite in certi punti del mio corpo, e più ancora, dentro di me, qualcosa sta lottando contro i nervi.

In breve le labbra cominciano a tremarmi… infine… piango. Piango e sento che questo mi libera come da un incubo. Josve, muto, mi guarda. Forse non capisce tutto, ma mi è molto vicino.

Dico al mio compagno di passare in testa e di proseguire, e, metro per metro, fra l’incessante nevischio, e ostacolato da un vivo dolore alle ossa, sempre aiutato da Josve, raggiungo la vetta.

Quando iniziamo a scendere sono indolenzito e preso da forti brividi. Mi fermo un poco su un terrazzino, e mentre aspetto il mio compagno, il mio pensiero ritorna allo strapiombo … il mio sguardo rivede la placca, si stacca, precipito … Una gomitata mi chiama alla realtà: è Josve che mi invita a scendere.

Per un po’ di tempo non ritorno in montagna, ma ai primi di settembre, rimessomi interamente dalle conseguenze del volo, vado in Val Malenco. Raggiunto il rifugio Porro, faccio conoscenza con due alpinisti, un uomo e una donna. Lei è molto bella. Sono fidanzati, e mi invitano a tracciare una nuova via sul Torrione Porro. Torrione è ingiusto chiamarlo, non ne ha l’aspetto. È una piccola montagna di rocce molto friabili. Ho tempo libero, perciò accetto.

Sui primi tiri di corda, molto facili, avevo l’impressione che tutto ciò che toccavo si staccasse, e questa sensazione mi accompagna per tutta l’ascensione. Il ricordo del volo sul Dente del Gigante ha lasciato nel mio subcosciente qualche cosa di anormale. Devo ritrovar fiducia in me stesso e confidenza con la roccia.

Ritroverò l’una e l’altra sulle guglie della familiare Grignetta. Il 1951 comincia male per me sotto molti aspetti. La mia attività alpinistica si limita a poche arrampicate di allenamento. Una forma grave di otite mi costringe durante la stagione a rinunciare alle grandi ascensioni. Ad un certo punto temetti che dovessero proprio sottopormi a un delicato intervento chirurgico che, secondo i medici, mi avrebbe forse impedito per sempre l’attività alpinistica.

1950 Luglio Campanile Fehrmann

Per fortuna questo pericolo fu scongiurato: ma quante ansie, quante preoccupazioni, quante mortificazioni. Vedere gli amici portare a termine numerose ascensioni, mentre io giravo a vuoto da una montagna all’altra senza alcuna speranza.

Josve non vuole lasciarmi solo; mi segue ovunque e, pur sicuro di non arrampicare, mi incoraggia dicendomi sempre la medesima frase: “Guarirai, c’è più tempo che vita, le montagne aspetteranno… “. Ma io, testardo, con lo zaino sulle spalle e coi muscoli carichi di penicillina vado all’attacco di pareti che mi attirano dicendo a Josve: “Può darsi che sia la volta buona “.

Ma fatti i primi metri, nonostante ce la mettessi tutta, le braccia mi tradivano. Ritorno dallo spigolo Nord di Comici sulla Cima Piccola di Lavaredo dopo un solo tiro di corda. Ritorno dalla Nord della Cima Grande alla prima traversata. Josve, con pazienza, mi segue. In agosto passo due settimane nel gruppo del Monte Bianco: mi accontento di percorrere i ghiacciai in lungo e in largo. Mi sento abbattuto: moralmente sono a terra.

Le vittorie di alpinisti amici, invece di entusiasmarmi mi abbattono: Possibile che non sia più capace di niente? In certi momenti mi vengono alla mente i giudizi che qualcuno aveva espresso quando ero tornato da grandi ascensioni.  “È un fuoco di paglia“,  dicevano. Questo ora mi fa riflettere.

C’è stato un momento in cui anch’io pensai di essere stato davvero un fuoco di paglia; una vampata di grandi salite, e poi basta. No, non una vampata breve: voglio essere come un fuoco vivo che avrà durata finché avrà forza e volontà.

In settembre sono nel Brenta. Voglio rifarmi della mia strana estate. Decido di attaccare il Gran Diedro della Brenta Alta. Però quando arrivo alla base la verticalità e la difficoltà della parete mi fanno subito cambiare parere. È da troppo poco tempo che sono in convalescenza. Ma questa volta non voglio tornare a casa senza provare la soddisfazione di una qualsiasi arrampicata.

Con una ragazza milanese, Teresita, mi porto all’attacco del Campanile Basso: questa guglia ardita la conosco bene avendo l’anno prima salito la via Fehrmann con Aiazzi e Perego. Ora la mia situazione non mi pennette che di tentare la via normale.

All’attacco incontrai il “vecchio” Adami: è in cerca di un compagno per salire proprio al Campanile Basso. Lo invito a legarsi a noi; entusiasta accetta, e più tardi mi dice che quel giorno è il suo compleanno e lo vuole festeggiare proprio sulla cima.

Gli faccio gli auguri e mi sento il dovere di cedergli il comando della cordata. Accetta con molto piacere. Mi sento calmo, non sono preoccupato, forse perché sono legato da ultimo ad una buona corda. I miei muscoli inzuppati di penicillina funzionano a meraviglia, ed a un certo momento mi pare di essermi svegliato da un lungo letargo. Peccato che davanti ci sia ormai soltanto l’inverno.

Scrivi un commento