A Cortina ho molti amici. Quando trovo la maniera di andarci lo faccio molto volentieri: questa volta siamo in sei e tutti sulla macchina di Franco Rossi. C’è Josve Aiazzi e ci sono Gaetano Maggioni, Renato Gaudioso, Bruno Papini: tutti andiamo da Ettore Costantini, e saremo per qualche giorno suoi ospiti.
È aprile, la neve abbonda ovunque e, al massimo, potremo arrampicare soltanto sulle Cinque Torri d’Averau. L’importante è di passare queste brevi giornate in questa bellissima conca, in compagnia dei nostri amici “scoiattoli”. Alla sera ci troviamo coi rocciatori cortinesi in uno dei numerosi bar e qui decidiamo di recarci all’indomani al Passo Falzarego.
Abbiamo scartato l’idea delle Cinque Torri per puntare, invece, alla Torre di Falzarego, e salire la sua parete Est: un’ascensione compiuta per la prima volta da Emilio Comici e che presenta medie difficoltà.
Siamo una grossa comitiva: oltre a tutti noi, c’è lo scoiattolo Bibi Ghedina, uno dei maggiori esponenti dell’alpinismo cortinese, c’è un prete, un avvocato, un dottore, un cineasta.
Siamo divisi in parecchie cordate: una lunga fila indiana sul fianco di una minuscola torre. I primi sono quasi sulla cima quando la mia cordata, che ha attaccato per ultima, è ancora alla base.
Renato Gaudioso trascina con sé una macchina da presa cinematografica, ma sarà un peso inutile: presto nevica ed è impossibile perdere tempo. Raggiunta la cima veniamo investiti anche da una sfuriata di vento e nevischio proveniente da Ovest.
Piazziamo una lunga discesa a corda doppia, e uno alla volta, ci caliamo alla base, in un canalone nevoso: poi, in breve tempo, raggiungiamo tutti il rifugio al Passo Falzarego. Alla sera siamo nuovamente con gli “scoiattoli” in uno dei numerosi bar: brindiamo alla stagione alpinistica che si apre augurandoci vicendevolmente buone salite; c’è anche Eugenio Monti, azzurro dello sci e campione mondiale, più volte, di bob.
Da vero amico ci incita a brindare; ma bere con loro significa per me iniziare subito dopo una severa dieta disintossicante a base di aranciate e latte. Una domenica, a un raduno svoltosi sulla Grignetta, ci troviamo in gran comitiva ai Torrioni Magnaghi. Ci sono alpinisti lombardi, piemontesi e trentini; ci sono anche parecchi reduci della spedizione italiana vittoriosa al K2 e c’è perfino un colonnello pakistano. Un’unica nota triste: l’accademico Carletto Negri si frattura una gamba.
Ci diamo subito da fare per trasportarlo a valle e, durante questa operazione, faccio la conoscenza di Gino Pisoni, noto alpinista trentino, che al momento opportuno, tiratomi in disparte mi dice: «Quando vieni in Brenta per quel problema?». «Che problema?» rispondo. «Va là, non fare il furbo, tanto lo sanno tutti che aspetti soltanto il tempo buono per andarci». A dire il vero, io rimasi stupefatto: pensavo che in Brenta esistesse davvero qualche altro problema, ma non sapevo dove: forse nei paraggi del rifugio Silvio Agostini, o al Dodici Apostoli.
Quella parte del Gruppo di Brenta non la conosco e solo lì può esserci qualche cosa di interessante da portare a termine; ma quello che mi stupisce è che gli alpinisti del posto o che hanno già posato il loro sguardo su questo problema, aspettino da un momento all’altro proprio il nostro arrivo. Se è una parete così bella ed interessante, come dice Pisoni, perché è rimasta intatta fino ad ora? Certamente sarà un osso molto duro, se aspettano che Josve ed io si vada a risolverlo.
Ma di che cosa si tratta? Pisoni ci ha incuriositi molto: lui crede che noi si sappia tutto, ma in verità cerchiamo di sapere qualche cosa solo, e proprio da lui. Josve è un “dritto” per queste cose, e si mette subito in azione. Fa molti sorrisi a Pisoni e poi, quasi con noncuranza, dice: «In Brenta non ci sono più problemi di un certo interesse: a meno di non tracciare vie su pareti dove ne esistono già parecchie o tentare qualche variante». Pisoni, candido, abbocca. «Non fate i dritti» dice. «Tutti sanno che fate la corte alla Cima d’Ambiez». «Alla Cima d’Ambiez?… questo è un altro paio di maniche; ma non l’abbiamo’ ancora vista». «È una bellissima parete; c’è, nel centro, un diedro che porta diritti come una fucilata sulla cima: fa gola a tanti alpinisti. Se non vi muovete credo che sarete preceduti».
Ci guardiamo in faccia, io e Josve, senza parlare. Esisterà davvero questo problema nella Valle d’Ambiez? Naturalmente la giornata passò confabulando fra noi due sulla notizia fornitaci da Pisoni. Tornati a casa, sfogliamo subito la guida del Brenta: leggiamo tutto ciò che dice della Cima d’Ambiez: dice che c’è una vasta parete Est, e che sulla faccia Sud Est ci sono due classici itinerari tracciati da Stenico, ma della parte centrale, che è gialla, dice soltanto che c’è una fessura regolare che sale fino in vetta. Niente altro.
Naturalmente ne caviamo abbastanza per farci preparare in un baleno il materiale, e qualche giorno più tardi, con le nostre moto, siamo a Madonna di Campiglio. Durante il viaggio ci fermiamo a Pinzolo. Di solito quando veniamo da queste parti ci fermiamo sempre a trovare Clemente Maffei, soprannominato “Guerret”, guida del Brenta e della Val di Genova, nostro caro amico. Maffei, appena ci vede, dice: «Siete venuti per il diedro?». «Sì» rispondiamo. «Siamo venuti per la Cima d’Ambiez». «L’avevo in programma anch’io e ho atteso troppo: ora ci siete voi, pensavo che sareste arrivati da un momento all’altro ed ora eccovi qua. Vi faccio i miei migliori auguri, ma andateci in fretta perché, a giorni, arriveranno altri alpinisti».
A quanto sembra Maffei ne sa più di noi: chiediamo delle informazioni sulla parete, e veniamo a sapere che è alta 450 metri e che è poco lontana dal rifugio Agostini. Raggiungiamo la Vallesinella dove lasciamo le nostre moto. Qui, il custode del piccolo “chalet”, altra vecchia conoscenza, ci saluta stringendoci la mano con questa frase: «Prendete tempo presto, quest’anno!».
Lo salutiamo e proseguiamo subito per il rifugio Brentei nostra prima tappa. Anche qui Bruno Detassis ci pone la stessa domanda: «Siete già arrivati! Andate per la Cima d’Ambiez?». «Sì». Quest’anno non abbiamo proprio perso tempo: infatti non sono ancora aperti ufficialmente i rifugi che noi siamo già qui, per affrontare la cosiddetta parete dell’anno.
Anche Detassis dice che ci attendeva; e questo, ormai, non ci sorprende più. Bruno dice che sono cinque le cordate che cercano di scalare la parete Est della Cima d’Ambiez: chissà da chi l’ha saputo. Oppure è soltanto una previsione fatta dalle guide della zona. Al rifugio Brentei si unisce a noi una ragazza di nome Marisa. È una nostra arnica, cugina del rocciatore Giancarlo Canali e ha fatto anche delle ascensioni con noi: ma, questa volta, Marisa non farà parte della cordata, rimarrà in rifugio: verrà sotto la parete per vedere come andranno le cose e poi, dice lei, ci porterà fortuna.
All’indomani lasciamo il Brentei per iniziare la marcia di avvicinamento: saliamo alla Bocchetta di Brenta e ci fermiamo al rifugio Pedrotti dove facciamo colazione. Giulio Della Giacoma ci accoglie calorosamente, dicendoci le stesse cose che ci ha detto Bruno, anzi, ci mette subito una pulce all’orecchio confidandoci che forse ci sono già altri alpinisti alla base della parete. Speriamo che non sia vero; ma se ciò fosse, anch’essi hanno il diritto di fare quello che vogliamo fare noi: sarebbe ingiusto prendersela.
Siamo venuti in Brenta per arrampicare e arrampicheremo; la Valle d’Ambiez, leggendo la guida, offre molte ascensioni, perciò non dobbiamo disarmarci. Siamo sempre decisi a recarci alla Cima d’Ambiez e così, dopo un lauto pasto, proseguiamo per il rifugio Silvio Agostini. A mezz’ora dal rifugio, osserviamo che le imposte sono chiuse. Forse la capanna non sarà ancora aperta e sarebbe un vero pasticcio, tanto più che comincia a cadere una fitta pioggia. Arriviamo completamente inzuppati. È davvero chiuso.
Troviamo però aperto il locale invernale: una specie di cantina, molto umida. Bisogna rimediare in qualche modo. Mi arrampico su un piccolo terrazzo del rifugio e noto che le finestre sono senza inferriate. Non mi è difficile aprire un’imposta; rotto anche il vetro, la finestra è completamente spalancata: quindi entro e vado ad aprire la porta. Presto tutti e tre siamo al riparo. Ci sembra di essere diventati i padroni e subito ci diamo da fare per scaldare l’ambiente. Nel frattempo Marisa cerca, come può, di sistemare alla meglio, con coperte di lana molto umide, tre cuccette per poter passare una notte decente. Piove sempre, ma, in questo momento, non ci badiamo.
Una cosa è certa, che non siamo stati preceduti: infatti siamo soli nella zona e questo ce lo dimostra il rifugio trovato chiuso e la totale mancanza di tracce sulla neve dei dintorni. Quando ci svegliamo, il mattino dopo, la pioggia cade ancora senza interruzione. Esco dal rifugio per dare un’occhiata nell’intorno: è un luogo nuovo per me e tutto mi incuriosisce; guardo anche la parete, è davvero verticale, ma la fessura dietro non si vede. Per vederla occorre salire un piccolo nevaio, ma piove troppo. Durante il pomeriggio esco nuovamente dal rifugio per vedere come vanno le cose.
Piove sempre e grosse nuvole passano veloci da Est a Ovest senza tregua. Guardo a valle e noto che lungo la mulattiera stanno salendo due persone e un cane. Non sono alpinisti; a giudicare da quello che si vede, uno dei due è un uomo molto carico e costui potrebbe essere sì alpinista o guida o portatore, ma l’altra persona è senza sacco e da come cammina sembra una ragazza. Forse sarà il custode. Avviso Josve e Marisa: comincia a cadere una fitta pioggia. Escono anch’essi dal rifugio per accertarsi. È proprio il custode.
Naturalmente, in quel momento, avremmo voluto essere tutti quanti sulla parete Est della Cima d’Arnbiez. Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo dirgli? È naturale che dobbiamo spiegargli tutto, anzi, Josve dice che gli pagheremo i danni arrecati al rifugio.
Per il momento l’unica soluzione è di accoglierlo nel più bello dei modi. La cucina è molto calda ed accogliente e prepariamo anche due tazze di buon the. Quando il custode e la figlia entrano nel loro rifugio, non hanno che da sedersi in cucina per asciugarsi e bersi la tazza di thè. Mentre beve, lo mettiamo al corrente di tutto quello che abbiamo combinato. Il custode ci sorride. Dice che non dobbiamo preoccuparci; anzi, chiede se siamo soli.
Anche lui sospettava di trovare più gente. Poi dice: «Dal fondo valle, quando notai il rifugio, ho detto a mia figlia: ecco che la corsa alla Cima d’Ambiez è cominciata; ma chi saranno i primi arrivati? E i primi siete stati proprio voi che abitate più lontano degli altri».
Piove per parecchio tempo, anzi, pioverà per tre lunghe giornate; ma in rifugio trovo il modo per non annoiarmi. Al contrario di Josve, che passa lunghe ore rintanato nella sua cuccetta, io mi metto a spalare neve, a spaccare legna, ad aiutare la figlia del custode, Mariella, ad ordinare il rifugio per l’apertura ufficiale. Lavoro molto volentieri, forse perché mi sento in debito verso il custode o perché, quando sono in movimento, le ore d’attesa passano più in fretta. Chiudiamo poi la nostra giornata, a sera, con una partita a scopa.
È l’unico giuoco che so fare, io in coppia con Mariella, contro l’imbattibile coppia Josve Marisa. Dopo tre giorni di attesa, ecco il sole. Mi carico sulle spalle un pesante binocolo con relativo cavalletto e, con Josve, scarpino fino alla base della parete. La studiamo nei suoi particolari, scrutiamo bene la fessura: sarà una gatta da pelare, ma vale la pena. Pisoni ci ha detto il vero: è una bella parete con una bella linea. Domani attaccheremo.
Alla sera, mentre stiamo portando a termine una complicata partita a scopa; questa volta in coppia con Josve contro Marisa e Mariella, con un bacio per posta, ecco entrare in rifugio i rocciatori trentini Armando Aste e Angelo Miorandi. Questi “guastafeste” vengono a dirci, nel più candido dei modi, che sono diretti alla Cima d’Ambiez. Rimango imbarazzato: non so se continuare a giocare a scopa o fare qualche cosa d’altro.
Certo questa visita non doveva essere una sorpresa per noi: è giusto che, col sopraggiungere del bel tempo siano arrivati altri rocciatori. Josve mi guarda come per chiedermi cosa dobbiamo fare. Ma, proprio allora, Aste si rivolge a me chiedendomi se accettiamo di effettuare la scalata assieme. Rimango un po’ incerto: naturalmente avrei voluto essere solo con Josve. E poi sono tre giorni che aspetto il tempo bello.
Mi sembra di essere defraudato di qualcosa, ma, riflettendo un poco, accetto l’offerta di collaborazione. In quattro aumentano le possibilità di riuscita, e certo faticherò meno. Stringiamo subito amicizia con la cordata trentina e trascorriamo la serata in una lunga chiacchierata.
Alle cinque del mattino lasciamo il rifugio. Saliamo il piccolo ghiacciaio e raggiungiamo la base della parete. C’è un tetto giallo, all’inizio. Aste vorrebbe superarlo direttamente, mentre secondo il mio punto di vista, lo si dovrebbe evitare con una arrampicata lungo una fessura che porta a destra sopra il tetto, per poi effettuare una traversata a sinistra e raggiungere il colatoio che si trova proprio all’uscita della sporgenza.
Questo colatoio però scarica abbondante acqua: e qui altre discussioni sulla provenienza e la maniera di evitare questa acqua. Forse c’è una macchia di neve sulla cengia che taglia la parete a metà, o forse è il diedro che sta scaricando i residui dell’abbondante pioggia delle giornate precedenti. Per assicurarci, decido di raggiungere, con Aste, la cengia centrale. Così mentre Aiazzi e Miorandi ci attendono alla base, noi, con una corda e qualche chiodo, raggiungiamo la vedretta d’Ambiez e da qui, con una facile arrampicata, ci portiamo sulla cengia. Da principio questa è percorribile, poi, nelle vicinanze del diedro, diventa assai complicata: ci leghiamo e usiamo anche qualche chiodo.
Ad un certo punto nù faccio calare in basso da Aste per quaranta metri, cioè fino dove arriva la corda, quindi nù slego e continuo a traversare verso il centro della parete per rocce molto sane di media difficoltà. Poco dopo raggiungo la terrazza al centro del diedro, e qui ho modo di notare che l’acqua che cade lungo il colatoio esce da una fessura. Osservo in diversi punti anche la fascia centrale della parete: si presenta molto gialla con una lunga serie di complicati strapiombi. Raggiungo nuovamente Aste e lo informo di tutto; scendiamo velocemente alla Vedretta e quindi all’attacco.
Ormai sono le nove, ma, secondo i nostri calcoli, c’è abbastanza tempo per raggiungere la terrazza dove contiamo di bivaccare, perciò ci leghiamo, divisi in due cordate, per affrontare la parete. Io sono legato con Josve, Aste con Miorandi. Sono io che attacco per primo, seguendo appunto la fessura di destra per evitare il tetto. Al ternùne, ci riuniamo tutti e quattro su un piccolo terrazzo. Qui inizio la delicata traversata a sinistra, usando chiodi piccolissimi. In due ore, con una delicata manovra di corde, ho superato soltanto una decina di metri. Il tempo, che al mattino era bello, è diventato ora molto incerto e nùnaccia temporale.
Dopo i famosi dieci metri, la traversata diventa più facile: qui, su una piccola inclinatura chiodata a perfezione, faccio arrivare Josve. A nùa volta continuo ad attraversare; entro nel colatoio proprio sotto la cascata e subito nù sento mancare il fiato. Esco dall’altra parte tutto inzuppato, ma qui, come se le nuvole aspettassero questo momento, nù scaricano addosso una fitta pioggia framnùsta a grandine. Cerco un posto riparato, ma la mancanza di un qualsiasi punto di sosta mi costringe a ritornare da Josve. Mi avventuro nuovamente sotto la cascata e raggiungo l’amico. Mi attende con il sacco da bivacco disteso sulla testa e perciò ho modo di ripararne un poco.
Aste e Miorandi sono al riparo, su un terrazzino all’inizio della traversata, coperto da un leggero strapiombo. Ma non è il caso d’invidiarli perché anche loro, cessato il temporale, dovranno passare sotto la cascata. È solo questione di tempo; più tardi si troveranno nelle mie medesime condizioni. Il temporale è breve e violento. C’è uno strano odore di zolfo. Se dovesse arrivare qualche fulmine, coi ferri legati in vita e con la lunga serie di chiodini che si trovano sul percorso fra noi e il terrazzo di Aste sarebbe un guaio serio. Potremmo essere bruciati tutti e quattro.
Quando il temporale se ne va, la parete è tutta bagnata. Rimarrà nuvoloso fino alla sera; poi, per ironia della sorte, potremo ammirare il cielo completamente stellato e le montagne illuminate dalla luna. Per una terza volta mi avventuro sotto la cascata e mi fermo dall’altra parte per aspettare Josve. Grido ad Aste che andrò avanti per raggiungere la terrazza all’altezza della cengia. Così, dopo qualche ora, io e il mio compagno siamo al punto esplorato da me al mattino. La terrazza è grande e molto comoda, ma è bagnata: pazienza, lo siamo anche noi. L’unica cosa da fare è di levare tutti gli indumenti e strizzarli per fare uscire l’acqua; poi, per non rimanere nudi tutta la notte, li rimettiamo. Una strana operazione questa, e su un salto di duecentocinquanta metri fa un certo effetto.
Più tardi, Aste e Miorandi dovranno ripetere la stessa operazione. Facciamo bollire del the, lo beviamo e ci infiliamo nei nostri sacchi da bivacco. La notte è lunga. Nessuno dorme, e cerchiamo di distrarci discorrendo del più e del meno. Aste, uno degli uomini più religiosamente seri che abbia incontrato, prega, ma tutti e quattro abbiamo gli occhi incollati all’orizzonte, come per affrettare l’uscita del sole. Si vede, prima, la linea che divide le montagne dal cielo illuminata da un tenue chiarore. Sono solo le due e siamo assaliti da forti brividi. Il tempo non passa mai.
Alle cinque, finalmente, ecco il sole. Leviamo tutti i panni di dosso e, tirata sulla cengia la corda, li stendiamo ad asciugare. Avrei voluto avere una macchina fotografica a colori: sulla corda di nailon, che in quel momento fungeva da corda da bucato, ci sono ad asciugare i maglioni rossi, azzurri, gialli, calze di tutte le tinte, pantaloni e perfino mutande e magliette. Noi, seminudi, sdraiati sulla terrazza, aspettiamo sino alle 8.30, l’ora in cui Aste dice che i panni stesi si sono asciugati. Alle nove partiamo. Ora, sulla fascia gialla, passa in testa la cordata dei trentini.
Aste e Miorandi proseguono superando strapiombi con largo uso di chiodi; io, a mia volta, li raggiungo seguito subito da Josve, tutto preso nello schiodare. Troviamo però anche il tempo per goderci qualche piccolo svago. È quando arriviamo ad una larga fessura e dentro c’è un nido. Già da tempo noto l’insolito gracchiare e svolazzare di due grosse cornacchie, ma mai avrei pensato che nella fessura ci fossero i piccoli. Vorrei prenderne uno, ma, invece, mi prendo solo una buona beccata. Mi passa la voglia di catturarli, ma quando arriva Josve lo invito a farlo.
Anche lui viene accolto a colpi di becco. Abbandoniamo i comacchietti al loro destino e proseguiamo per raggiungere i nostri amici trentini. Su un terrazzo, alla base di una fascia di rocce nere ci riuniamo. È arrivato il pomeriggio ed è arrivata anche una fitta nebbia. Ci consultiamo: la fascia di rocce nere deve essere quella striscia orizzontale molto scura che si vedeva dalla base: perciò la vetta, a nostro parere è vicina.
E così è; al termine della fascia di rocce nere, inizia una facile crestina che ci porta in breve tempo sulla cima. ·Siamo tutti felici, e lo si vede dai visi sorridenti. Divoriamo tutti i viveri rimastici. Quando abbiamo riordinato tutto, frughiamo sotto la neve finché troviamo il libro della vetta: è molto umido; l’astuccio di ferro non è stato sufficiente a preservarlo dall’umidità. Dal settembre dell’anno precedente, siamo i primi a calcare questa cima, e noi siamo arrivati per una nuova via: una via diretta di estreme difficoltà, senza dubbio la più difficile di questa montagna.
Scriviamo sul libro la relazione tecnica chiamando la via da noi tracciata «Via della Concordia» per sottolineare l’unione delle nostre due cordate. Aste prega per ringraziare Dio di questa vittoria ed è cosa molto commovente sentire mormorare preghiere sulla vetta della montagna in mezzo alla nebbia.
Io, a mia volta, sento il dovere di ringraziare, dopo Dio, anche l’amico trentino, Pisoni; fu lui, senza volerlo, a indirizzarmi su questa parete, abboccando alle astute domande di Josve. Scendiamo per la cresta Sud e raggiungiamo il rifugio dove Marisa, Mariella e il custode ci attendono per festeggiarci.
È una festa alla buona, con una bottiglia bevuta in allegria. Pochi giorni dopo, raggiungiamo Chamonix col treno e saliamo poi a Montenvers, dove ci attende Walter Bonatti. Siamo in quattro: io, Josve Aiazzi, Carlo Mauri e Walter. Vogliamo tentare la prima scalata assoluta dello spigolo Sud Ovest del Petit Dru.
È una vecchia nostra conoscenza, questa enorme guglia, l’abbiamo scrutata a fondo: conosciamo tutte le fessure e sappiamo che per arrivare alla base dello spigolo occorre superare seicento metri di un insidioso canalone che continua a scaricare pietre e ghiaccio.
Personalmente non sono ancora riuscito ad entrarci, ma Bonatti e Mauri conoscono molto bene le sue insidie. Il tempo, a quanto sembra, è bello, e domani andremo all’attacco. Dobbiamo lasciare il rifugio molto presto. Bonatti vorrebbe partire alle due; io e Mauri siamo per le tre. Aiazzi, naturalmente, è per le quattro, dice che a quell’ora è già chiaro: ma in realtà pensa soltanto di guadagnare un’ora di sonno. Andiamo “per maggioranza”: partiremo alle tre.
La marcia di avvicinamento è lunga, l’enorme costone di morena che ci porta all’attacco è molto faticoso e richiede parecchio tempo. Poco dopo comincia a cadere qualche goccia; poi subito smette e sopraggiungono, ad intervalli, enormi banchi di nebbia umida che penetra nelle ossa. Girando lo sguardo attorno, mi trovo attorniato da montagne del tutto diverse da quelle dolomitiche: qui l’ambiente è più severo, più tetro, immenso e selvaggio. Le guglie nere avvolte dalla nebbia e le fiumane di ghiaccio sconvolte e tormentate luccicanti nelle tenebre offrono una visione dantesca.
Finito il costone morenico scendiamo su un breve ghiacciaio: lo percorriamo fino sotto alla direttrice del grande canalone che scendeva a destra della parete Ovest del Petit Dru, anzi ci portiamo all’imbocco e ci fermiamo un po’ a riposare su un gros so sasso che emerge dal ghiacciaio. Decidiamo di legarci per affrontare direttamente il canalone. Sappiamo che pochi giorni prima l’alpinista francese Magnone e alcuni suoi compagni hanno rimontato il canalone fin quasi al suo termine, ma che non sono riusciti ad attraversare sullo spigolo.
Bonatti, conoscendo già la zona, ci dice che la traversata sarà alquanto complicata: ostacolata anche da frane che di frequente si staccano dai fianchi di questa enorme guglia. Siamo ancora intenti a legarci quando il Dru si fa vivo con una scarica di sassi: in un baleno, come se fossimo in un’azione di guerra, saltiamo giù dal sasso e ci mettiamo al riparo. La scarica ci sfiora: pochi secondi e qualcuno di noi sarebbe stato colpito. Ci guardiamo in faccia un po’ pallidi, nessuno parla: sappiamo solo che dobbiamo entrare lì dentro. L’aria puzza ancora di zolfo, quando attacchiamo il canalone e questo odore ci tiene sempre in allarme e ci consiglia di essere veloci: meno tempo qui dentro, meno sono le possibilità di essere investiti.
Con Bonatti in testa attraversiamo velocemente la crepaccia terminale, attacchiamo il liscio colatoio e con un passaggio alquanto difficile entriamo nel canalone: presto ci portiamo sul fianco destro, fuori, per il momento, dal tiro delle pietre. Proseguiamo per tutta la giornata divisi in due cordate: la prima formata da Bonatti e Mauri, l’altra composta da me e Aiazzi. Superiamo lunghi canalini resi difficili dalle incrostazioni di ghiaccio e superiamo anche placche rese infide dalla patina che le copre. Per maggior sicurezza, durante questi tratti, dobbiamo usare qualche chiodo. Verso le quattordici, i seicento metri del canalone sono sotto di noi: ora si tratta di attraversarlo verso sinistra per raggiungere lo spigolo. Iniziamo così una lunga traversata e, fra una scaglia di granito e la parete, troviamo due pezzi di legno lasciati sicuramente dalla cordata di Magnone.
Questo deve essere il punto massimo raggiunto dai francesi pochi giorni prima. Lungo la traversata, uniamo le cordate in una sola e, sempre con Bonatti in testa, dopo una complicata arrampicata usando in parecchi punti chiodi da roccia nel duro ghiaccio, raggiungiamo una terrazza molto inclinata posta sopra una specie di torrione di granito che chiude il colatoio. Siamo alla base dello spigolo Sud Ovest. Sostiamo un poco, poi sono io che prendo il comando della cordata, ma ho fatto appena qualche metro che si mette a piovere. Retrocedo subito per raggiungere gli amici e per il momento l’unica cosa da fare è preparare un luogo per passare la notte.
La terrazza, sebbene ampia, è molto inclinata e scomoda: per una maggiore sicurezza e per poterci muovere lungo di essa senza correre rischi tiriamo una corda a ringhiera o a passamano dalla parete al tenÌline della terrazza, quindi agganciamo i moschettoni dei nostri cordini di assicurazione. Sono soltanto le sedici e l’unica cosa da fare in questo momento è mangiare. Mangiamo parecchio, quasi diamo fondo a tutti i viveri. Notiamo che il nevaio posto alla nostra destra è segnato da profonde buche: devono essere dei massi che, cadendo dall’alto finiscono in quel punto per poi continuare la loro corsa lungo il canalone. Il guaio per noi è che questo piccolo nevaio è a soli pochi metri e non sappiamo cosa possa cadere dall’alto.
Piove sempre: ci infiliamo nei sacchi da bivacco e aspettiamo che arrivi la sera, poi la notte. L’acqua picchia furiosa sui nostri sacchi da bivacco: poco a poco comincia a penetrare e comincia ad inzupparci. Siamo svegli e continuiamo a chiacchierare, raccontiamo barzellette o fatti vissuti: nelle condizioni in cui ci troviamo, troviamo anche il modo di fare lunghe risate. Al mattino la pioggia continua a cadere e non possiamo nep pure uscire dai nostri sacchi. Mangiamo ancora, riduciamo sempre i viveri; temiamo di rimanerne senza, ma Mauri ci assicura che quando saremo in vetta avremo tutti una ricompensa: dice che in una tasca del suo sacco tiene una cosa da mangiare che fa correre l’acquolina in bocca.
Di tornare indietro per ora non se ne parla: si guarda solo in alto per scrutare, fra la nebbia, lo spigolo che ci sovrasta. Alle undici cessa di piovere, ma permane la nebbia. Usciamo dai sacchi e riprendiamo ad andare avanti sul granito bagnato. In noi tutti è entrato il medesimo desiderio: cambiare dimora, magari solo trenta metri più in alto, ma non più su questa terrazza. Qui c’è aria grama, questo posto non ci ispira più fiducia: durante la notte altri sassi sono caduti sul piccolo nevaio che è molto vicino a noi.
Passa in testa alla cordata Bonatti: lui conosce già il posto essendoci stato nel suo tentativo precedente. Saliamo ora usando chiodi per una quarantina di metri fino ad un grande terrazzo da dove si alza una piccola fessura battezzata da Bonatti col nome di “ramarro”. Mentre Walter è impegnato su essa, si mette a nevicare. Nevica subito forte e a larghe falde; è neve molto bagnata. Raggiungiamo un piccolo terrazzo a ottanta metri sopra il nostro primo bivacco. Anche qui piantiamo dei buoni chiodi di assicurazione e ci sediamo cercando di ripararci alla meglio nei nostri sacchi di tela già bagnati. Sono solo le quattordici: mangiamo ancora, finiamo tutti i viveri.
Ad un certo punto mangiamo biscotti spalmati di salsa di pomodoro, e Bonatti dice che sono molto gustosi. Poi la lunga attesa, la sera, poi la notte e il giorno seguente, se arriverà. Presto cominciamo un monotono movimento per spazzare la neve che ci copre. Nevica sempre forte. Guardandola cadere mi rammenta tante cose, specie quando ero bambino: allora stavo delle ore nella casa calda a osservare dalla finestra la disordinata caduta dei fiocchi bianchi. Allora mi divertivo, ma qui è tutto diverso; qui la neve si fa sentire col suo insidioso candido manto.
Mi prende una grande tristezza, e tristi mi sembrano anche i miei compagni: credo che tutti abbiano lo stesso desiderio, quello di essere laggiù in pianura lontano da questo luogo diventato inospitale e pericoloso, da questo luogo che ci fa soffrire le pene dell’inferno. Bisogna rompere questo momento di debolezza, se continuiamo la cosa potrebbe prendere una brutta piega: bisogna essere alti di morale per affrontare la dura notte che si prepara. È Josve che per primo rompe il silenzio già durato troppo: «A pensarci bene» dice, «siamo dei bei cretini, con tutte le spiagge gremite di ragazze in costume da bagno, sdraiate al sole desiderose di compagnia, noi per fare i furbi ci siamo cacciati quassù». «Hai ragione» dico io, ma entra subito in azione Mauri: «A proposito di spiaggia e di mare, vorrei essere in questo momento al fianco della mia fidanzata». «Perché, è al mare?». «Sì, è a Rio de Janeiro, in Brasile». «Rio de Janeiro?…».
E qui una lunga discussione su questo incantevole luogo, ed è un ironico discutere di sambe, di rumbe, di spiaggie assolate, di locali notturni affollati di esuberanti brasiliane … Ma ben presto anche questa discussione ha fine: torna la tristezza. Scende la sera: il gelo già da parecchio ci costringe a battere i denti, ed è un battito monotono. Odo da dentro il mio sacco il battito regolare dei miei compagni.
Ad un certo punto comincio a distinguere il rumore emanato dalle mascelle dei miei amici, il battito a scatti di Walter, quello forte di Carlo e infine quello ritmato di Josve. Siamo bagnati fradici, tanto bagnati che ogni volta che ci . muoviamo per scrollare lo spessore di neve che ci copre, lo facciamo con pigrizia; perché quando ci muoviamo, l’acqua che inzuppa gli indumenti di lana si strizza gelata sul corpo.
Cerchiamo senza successo di raccontarci nuove barzellette, quelle che non abbiamo raccontato la sera prima: è un ridere forzato, senza gaiezza, quando, ad un tratto, rimaniamo agghiacciati: I ‘aria elettrizzata trema, la montagna vibra in tutta la sua ossatura, il terrazzo su cui siamo seduti sembra staccarsi da un momento all’altro; poi uno schianto seguito da altri e per ultimo un tre-mendo e prolungato boato che percorre tutto il canalone. Un forte odore di zolfo entra nei nostri sacchi.
Ci guardiamo in faccia ammutoliti. Forse un’enorme valanga di neve è caduta lungo il canalone, ma dal frastuono e da altri sintomi diremmo che deve essersi trattato di qualcosa di più di una valanga di neve. Nessuno ha più il coraggio di chiudere occhio, anche se ciò fosse stato possibile. So ‘solo che durante quelle lunghe ore, quello che maggiormente mi preoccupava erano i piedi: non li sentivo più e le dita con molte probabilità, correvano il rischio di congelarsi. Ecco un’altra alba, un altro mattino, ed è quello della terza giornata che passiamo sul Dru.
Ora non nevica più , ma la nebbia giunge sempre ad intervalli regolari in grossi banchi che si sfilacciano contro le guglie nere. Bisogna fare qualche cosa: ci guardiamo in faccia, nessuno parla, ma comprendiamo che tutti abbiamo un solo desiderio, scendere, e scendere più in fretta possibile. Non abbiamo più viveri , tutto il nostro equipaggiamento è inzuppato, la montagna è innevata, le nostre condizioni cominciano a peggiorare.
Cosa dobbiamo fare? Bisogna scendere, e scendere lungo il canalone: ecco la nostra paura, il canalone con le sue scariche. Ci arrendiamo al Petit Dru, per questa volta, ma torneremo presto. Lasciamo in una fessura sul terrazzo i nostri cunei di legno: è il nostro impegno con la montagna, ora non ci rimane che lanciare le corde doppie e iniziare così la lunga serie di discese. Prima di abbandonare il terrazzo, Mauri vuol dire la sua: «Ragazzi, avevo portato con me una cosa da mangiarsi sulla vetta per festeggiare la vittoria, ma dato che decidiamo di abbandonare per il momento l’impresa, la cosa che ho con me la mangiamo qui, sul punto più alto da noi raggiunto». E tira fuori dalla tasca del suo sacco un piccolo involto.
Guardiamo tutti molto curiosi: una cosa è certa, abbiamo una tremenda fame e qualunque cosa ci sia nel pacchettino arriva al momento giusto. Mauri comincia a scartocciare la carta che si presenta sempre più unta; infine mette allo scoperto quattro cetrioli sotto aceto.
È una grande festa: credo che siano i migliori cetrioli della mia vita. Iniziamo la discesa a corda doppia con due calate da quaranta metri finché raggiungiamo il terrazzo dove avevamo bivaccato la notte prima. Qui troviamo tutto sconvolto: il piccolo nevaio ha cambiato forma e sul terrazzo nemmeno la minima traccia del nostro bivacco. Il tremendo boato sentito il giorno prima era stato provocato da una enorme frana di granito e ghiaccio schiantatasi sul nevaio e precipitata in pazza corsa lungo il canalone. Notiamo che un pezzo di lastrone di granito manca dalla fiancata Sud del Dru. È caduto investendo e deformando tutto.
Se fossimo rimasti sul terrazzo, o se il lastrone fosse caduto 24 ore prima, buona notte per tutti e quattro! Continuiamo la lunga e monotona serie di discese. Ora siamo anche ossessionati dalla frana: può darsi che qualche pezzo di roccia o di ghiaccio sia rimasto in bilico e, se cadesse proprio ora, noi, nel canalone, avremmo poche probabilità di scamparla. Legando insieme le corde da quaranta metri siamo facilitati e più veloci nel piazzare le discese: infatti assicuriamo le due corde ad un chiodo piantato saldamente e scende Bonatti fino ad un terrazzo o a un posto dove ci sono altre possibilità di piantare chiodi, poi scendo io, quindi Aiazzi e Mauri che hanno il compi to di ricuperare le corde per poi passarle a noi più in basso, e via sempre così.
Senza parlare e sempre ossessionati dalla scarica. Mentre sto raggiungendo Bonatti che osserva la mia discesa vedo che mi fa un segno e mi grida. «Attento Andrea!…». Sento un forte colpo al capo e pendolando sulla corda senza allentare la stretta delle mani cerco di dirigermi sul terrazzo: Bonatti mi prende saldamente prima che io abbandoni le corde. Un sasso mi ha colpito di striscio sulla testa: subito sento del liquido caldo calarmi per il collo, è sangue… Walter mi leva il cappuccio della giacca a vento, poi il cappuccio di nailon imbottito di piume d’oca e infine il passamontagna di lana: sono tutti e tre bucati, ma tutto ciò non è stato sufficiente a ripararmi la testa.
Walter mi esamina la ferita, la pulisce con della neve e mi fascia la testa con un fazzoletto, mi rimette a posto i numerosi cappucci forati e mi incoraggia dicendomi che in fondo ho avuto fortuna. Ha ragione, ho avuto fortuna, poteva andare peggio: oramai siamo in tali condizioni da confrontare tutto ciò che ci capita col peggio. Scendiamo ancora, il canalone è sconvolto e martellato, pensiamo alle dimensioni della frana caduta. Più in basso, al termine del canalone, veniamo sfiorati da una scarica a mitraglia di piccoli sassi: poi con una ultima discesa a corda doppia tocchiamo il ghiacciaio.
Qui ci rendiamo conto di ciò che realmente è successo. Un fianco della montagna è franato lasciando una striscia di detriti di roccia e ghiaccio larga una cinquantina di metri e lunga più di duecento, seppellendo totalmente il masso che ci aveva riparati prima di attaccare il canalone. L’abbiamo scampata bella. Ora che siamo fuori pericolo, è come se improvvisamente fossimo tornati alla vita. Siamo felici: siamo felici perché siamo tutti incolumi.
Per noi l’impresa da portare a termine questo terzo giorno era di raggiungere la base, e ci siamo riusciti, presto raggiungeremo anche Montenvers. Il tempo è sempre brutto: pare che abbia intenzione di riprendere a nevicare da un momento all’altro, ma a noi non importa più. Raggiungiamo l’albergo ed entriamo nelle nostre camere: abbiamo addosso i vestiti ancora bagnati; li leviamo e, nudi, ci infiliamo nelle cuccette.
Abbiamo molta sete, abbiamo anche fame; l’unica cosa da fare è di bere del latte: ne beviamo sei o sette bottiglie; beviamo latte e discorriamo; parliamo della nostra avventura sullo spigolo del Dru, dei tremendi bivacchi trascorsi, dei pericoli scampati. Guardando dalla finestra verso la montagna notiamo che c’è ancora tormenta, e questa volta, a quanto sembra, molto più forte di quella precedente. In fondo siamo stati davvero fortunati… Se fossimo ancora lassù?
Per il momento non c’è risposta: ora è necessario dormire, poi vedremo…
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